L’art d’etre hereux di Stephan Liberski. La bellezza e l’arte ci salveranno
di Pino Moroni
L’art d’étre heureux, aveva all’origine un altro titolo più adatto sull’originale personaggio del film De l’art ou de Machond, ma il concept, come vuol dimostrare il raffinato intellettuale regista belga Stefan Liberski rimane sempre lo stesso:
“la bellezza naturale e la riproduzione artistica dell’uomo ci salveranno”.
Jean-Louis Machond (Benoit Poelvoorde), per come si presenta nella sua casa di Bruxelles, è un professore loquace di letteratura, cinema, arte ed altro, un uomo pieno di concetti, un pensatore seriale ad ampio spettro, come non se ne vedono più molti in questo ormai quasi vuoto e silenzioso presente. Lo troviamo ad un’importante svolta della sua non certo annoiata e noiosa vita.
Chiude il suo appartamento e seguendo il suo ultimo concetto, del fare “Tabula rasa”, che vuol dire ricominciare daccapo, va a vivere ad ‘Etretat in Normandia, dove le falesie (scogliere bianche) della costa di alabastro hanno ispirato con il loro paesaggio di rara bellezza Monet e Corbet (di cui si vedono alcuni quadri impressionisti sovrapposti alla realtà) e Maupassant per le sue straordinarie novelle.
Vive in una casa (simile ad un fungo di ferro) creata da un architetto come lui concettuale, frutto di un pensiero non certamente estetico e sicuramente poco affidabile.
Qui Machond vorrebbe realizzare, seguendo l’ispirazione delle sue idee concettuali, un’opera che dovrebbe restare nella storia dell’arte. Qualcosa che sottragga l’arte stessa ai canoni e vincoli formali, naturali e culturali della tradizione.
Ma purtroppo non si vive mai soli (Machond vive e parla con la fotografia della figlia bambina, che la moglie, da cui si è separato, ha portato in Cina), ed attraverso un pittore figurativo Bagnoule (il regista Gustave Kervern), che invade il suo terreno e dipinge paesaggi, comincia a frequentare il picaresco ambiente degli artisti della cittadina.
Vernissage, cene, sbornie ed amori si intrecciano nella nuova vita di questo novello M. Hulot (Jacques Tati), tanto scombinato e ridicolo, ma poi pieno di empatia e solidarietà verso gli altri.
L’antiDivo di Andrea Segre
di Giulia Pugliese
Pamphlet personale e politico su Enrico Berlinguer, un film che arriva tardivamente, ma il personaggio di Berlinguer ha ancora molto da dire sul nostro tempo: l’asse America-Russia, il patto Atlantico, la NATO, la pace e una Russia di ieri che non è cambiata molto. Il non dimenticato, ma mai troppo ricordato segretario del Partito Comunista rivive nel volto dell’ottimo Elio Germano, che riesce a dare spessore al personaggio senza cadere nella semplice imitazione, ma aggiungendo connotazioni naturali, riprendendo il suo accento, la sua postura e i suoi modi.
L’idea di raccontare episodi poco conosciuti della vita di Berlinguer, come l’attentato in Romania e gli incontri segreti con Aldo Moro, dona nuovo spessore e una narrazione inedita al personaggio. Nell’opera si alternano il Berlinguer politico e il Berlinguer uomo, senza che uno prevalga sull’altro, offrendo una visione a 360 gradi del personaggio. I momenti in cui la telecamera è molto vicina al protagonista si alternano a quelli familiari, in cui l’inquadratura si allarga a mostrare il nucleo familiare di Berlinguer, ai momenti nelle fabbriche e ai comizi con migliaia di persone. Nel mostrare la nuca del Segretario (un espediente che abbiamo visto in tanti film alla Festa del Cinema di Roma di quest’anno), non solo lo vediamo da ogni angolazione, ma possiamo concentrarci su ciò che vede lui, esplorando la sua tridimensionalità. Anche la sua famiglia politica è presente: Nilde Iotti (Fabrizia Sacchi), Pietro Ingrao (Francesco Acquaroli) e Luciano Barca (Andrea Pennacchi), solo per citare i più noti, ma nel film compaiono molti membri del Partito Comunista, dando l’idea di una coralità e di un confronto collettivo, di una vecchia politica che oggi non c’è più perché i partiti sono basati sui leader. L’Enrico Berlinguer del film li consulta e li ascolta, pur prendendo a volte decisioni impopolari per il partito. Ma Andrea Segre non si ferma ai 360 gradi: mette in atto una vera e propria radiografia del personaggio. Enrico Berlinguer ci parla anche dei suoi sogni, quindi del suo subconscio, e del suo passato a Cagliari. Il film è un grande affastellamento di privato, pubblico, politico e immagini di repertorio (è stato anche l’anno delle immagini d’archivio al ROFF). Non si ripercorre solo la vita di Berlinguer, ma si cerca di far rivivere un’epoca e i sentimenti che la caratterizzavano e che non esistono più, dove per citare gli Offlaga Disco Pax, “il comunismo era in espiazione”.
L’uso dei materiali d’archivio aiuta notevolmente in questo. Viene ribadito con intelligenza che Berlinguer si stava distaccando dal comunismo sovietico, cercando un dialogo con la Democrazia Cristiana. È anche fondamentale ricordare che in quel periodo storico, Allende era stato appena destituito dal regime militare, cosa che il film fa. Viene messa in campo una conoscenza della geopolitica dell’epoca, senza sensazionalismi o caricature dei personaggi, e l’opera ricorda i grandi film biografici dalla vocazione civile come Il caso Mattei e Sacco e Vanzetti.
L’opera contiene anche elementi di assurdo e meraviglioso, come appunto il racconto dei sogni. Anche Andreotti, interpretato da Paolo Pierobon, ne racconta uno, Enrico Berlinguer che cerca soldi nei libri, e l’Unione Sovietica sembra uscita da un film di Wes Anderson. Paolo Cervetti, interpretato da Lucio Patané, a cui Berlinguer chiede se gli manca la Russia, lui risponde: “Mi manca essere giovane”. Questo suggerisce che per un momento i sogni avrebbero potuto coincidere con la realtà, aggiungendo una nota malinconica. Ma siamo davvero sicuri che, se si fosse realizzato il compromesso storico, l’Italia di oggi sarebbe diversa? Il film alla fine ci mostra Margaret Thatcher e Ronald Reagan, e ci fa riflettere su come il mondo e l’Italia abbiano preso direzioni diverse. La politica italiana dell’epoca non è stata così determinante. È facile raccontare che in questo paese tutto è andato male perché le Brigate Rosse (?) hanno ucciso Aldo Moro, allora segretario della Democrazia Cristiana, ma invece è noto che furono i servizi segreti americani e che la mancanza di trattative portò alla sua morte. La scelta di non trattare fu dettata dall’establishment andreottiano del partito. Chi è quindi il boia, e chi aveva previsto tutto? Questa parte nel film viene taciuta.
Il film, alla fine, perde un po’ di lucidità, ma rimane il ritratto di un uomo politico e di un uomo che aveva visto oltre, narrato con semplicità, arguzia e senza stereotipi. La prima parte del film è ben costruita, con ritmo e spessore, ma nella parte finale manca di coraggio e il finale risulta corretto, ma non eccellente.
We live in time- Tutto il tempo che abbiamo, di John Crowley
La morte… a nessuno può sottrarre il tempo raggiunto. Wislawa Szymborska
di Letizia Piredda
Richiama per certi versi Aftersun, per il ritmo incalzante che guarda ora al passato ora al futuro seguendo il susseguirsi delle emozioni. Certo la tematica ci riporta al famoso Love story degli anni ’70, “amore significa non dover mai dire mi spiace”, ma con anni luce di distanza dalla retorica smielata di cui quel film si nutriva. Sì perché qui è la vita a prevalere in tutte le modalità, in tutte le dimensioni, in tutte le tonalità, con una freschezza e un’energia sostenute anche dalla eccezionale alchimia che da subito si è stabilita tra i due bravissimi attori, Andrew Garfield (Tobias) e Florence Pugh (Almut).
Una romcom atipica, fuori da qualsiasi regola, dove la drammaticità si coniuga con la comicità, dove tutto avviene con una rapidità, un’urgenza indescrivibile. Ce lo fa capire il regista quando afferma: “Mi piacciono le romcom dove l’amore è un effetto collaterale…”
E di tutte le scene la scena clou è quella del parto (ma non stavamo parlando di chemioterapia?) quella che rappresenta il tono del film con l’assurdità della situazione, le persone coinvolte, le diverse emozioni, il panico di Andrew che finisce col dire involontariamente delle battute comiche, il collegamento in videochiamata con il pronto soccorso.
Anche la Londra in cui è ambientato il film è autentica, reale, zone anonime, di passaggio, non la Notting Hill di oggi dove puoi vivere solo se sei milionario.
In ogni scena veniamo coinvolti e portati al clou di ogni situazione, ci troviamo sempre in medias res senza sentirci di troppo, neanche nelle scene più intime.
La retorica, il ripiegamento vengono lasciati fuori, alle Love story di ogni epoca. E un po’ anche al più recente Living (2022) di Oliver Hermanus, remake del film di Kurosawa Vivere(1952) che tenta un’operazione simile ma riuscendoci solo in parte.
Qui l’immediatezza si coniuga con un tempo dilatato: un tempo che scavalca il tempo. E in questo la musica svolge un ruolo portante mantenendo l’unicità del tono del film. C’è la suspence e c’è anche il fatto di sapere il dopo, ma è la prima che prevale: e mentre guardiamo la scena in cui Almut piroetta sul ghiaccio, con il marito e la figlia che la guardano ammirati, ci chiediamo come può finire un film così vitalizzante e drammatico allo stesso tempo: ecco che arriva un fading che pian piano scolorisce la scena fino a farla scomparire.
La gazza ladra (La pie voleuse). Un film sulla classe operaia senza più identità e futuro
di Pino Moroni
Il regista Robert Guediguian (La gazza ladra) è un regista della sinistra del Novecento. Un Kean Loach francese, che ha seguito politicamente le rivoluzioni, l’evoluzione ed i cambiamenti epocali della classe operaia, ormai senza più ideali e significato.
In questo crepuscolare momento di moda individualista e pragmatista, in cui la stessa classe operaia ha ceduto alla precarietà economica e sociale, tutto è diventato godimento effimero della vita (casa con ridicola piscina, cibi e vestiti proibitivi di marca e costose smisurate ambizioni), ed ha imparato da semplice ed onesta che era, ad essere invece furba ed ipocrita in ogni relazione e sentimento, compreso l’amore, diventato come peccato, sulla scia delle soap opera televisive.
Ed in questo paradosso la classe operaia si è imborghesita, impoverendosi di più miseramente. Ha perduto la sua fascinosa naturalezza, facendosi contaminare dalla finzione, dal doppio gioco, da un interesse mai più sociale ed altruistico ma solo personale ed individualista.
Come dice il film La gazza ladra si è piegata a tutte le idee peggiori del nuovo millennio, perdendo per sempre tutte le utopie di unione e solidarietà delle sinistre. Solo l’interesse ormai guida ogni singola azione della vita quotidiana.
La dolorosa e umana storia dei ragazzi della Nickel, di RaMell Ross
di Giulia Pugliese
Tra i numerosi film che trattano il razzismo sistemico negli Stati Uniti, Nickel Boys ha ancora qualcosa di nuovo da dire, soprattutto per il modo in cui affronta il problema, grazie alle sue invenzioni registiche che lo rendono diverso da altre opere.
Basato su una storia vera, raccontata nel romanzo I ragazzi della Nickel di Colson Whitehead, il film parla del riformatorio Nickel, dove vigeva la segregazione razziale. I bianchi vivevano in una sorta di accademia, mentre le persone di colore e le minoranze erano sottoposte a violenze e costrette a svolgere lavori non retribuiti, in una sorta di “seconda schiavitù”.La storia è raccontata con una certa poesia, resa visibile attraverso l’amicizia, l’amore della nonna di Elwood (interpretata dalla meravigliosa Aunjanue Ellis-Taylor) e la natura. Accanto a questi elementi, però, il film inserisce anche una buona dose di brutalità, evidenziata dalla violenza gratuita dei secondini, tra cui spicca Hamish Linklater, ormai specializzato in ruoli da carnefice o da interprete di personaggi horror. Le crudeltà dei secondini non sono meno feroci della violenza e segregazione sistemica del sistema giudiziario, lavorativo e sociale degli Stati Uniti negli anni ’60. L’abolizione della schiavitù, avvenuta nel 1865, non ha portato a un sistema che permetta agli afroamericani di accedere a un lavoro, un’istruzione e parità di diritti. La violenza fisica, però, non ci viene mostrata in modo esplicito, quasi a tutela dei protagonisti e dello spettatore. Tuttavia, vi sono scene tensive e tristi come quella in cui Griff (Luke Tennie) si rende conto di non aver seguito gli ordini del secondino e si prepara a subire le conseguenze. Proprio in quel momento, si intravede una sorta di ribellione e di speranza per i ragazzi. Il punto non è tanto subire o non subire violenza, quanto vivere nella costante coercizione e paura, una condizione che probabilmente non era molto diversa da quella che vivevano gli afroamericani al di fuori dell’Istituto Nickel e che, forse, vivono ancora oggi.
Il film racconta la vita di Elwood, un ragazzo normale cresciuto con una nonna affettuosa e determinata a offrirgli una vita migliore della sua. A causa di un errore giudiziario, Elwood si ritrova a vivere un inferno, spesso citato nel film quando si parla di un luogo. Il regista, presentando il film in anteprima nazionale alla Festa del Cinema di Roma, ha dichiarato di voler far provare allo spettatore ciò che i protagonisti sentono, utilizzando la soggettiva per permettere al pubblico di vedere ciò che vedono Elwood (Ethan Herisse) e Turner (Brandon Wilson). Questo crea un gioco di mimesi che genera tensione e coinvolge emotivamente lo spettatore. Inoltre, la soggettiva sembra fondere le esperienze dei due ragazzi, quasi a suggerire che entrambi vivano la stessa oppressione. Questa ambivalenza permette di creare un racconto sia generazionale sia universale, nonostante la storia sia ambientata in un contesto e un periodo storico specifico. Non vedendo i volti dei personaggi, questi potrebbero rappresentare chiunque, persino noi stessi. L’uso dei materiali di repertorio non serve solo a fare riferimenti storici, ma anche a dimostrare che l’uomo può evolversi scientificamente, ma certi odi e certe paure rimarranno sempre parte della sua natura. Nelle parti che raccontano la vita adulta del protagonista, spesso lo vediamo di spalle, mentre legge articoli sulla Nickel. Anche qui, il volto del protagonista rimane nascosto, permettendo al pubblico di identificarlo con chiunque. Il film, giustamente, tocca anche il tema dell’elaborazione del lutto, non meno doloroso delle violenze subite. Con l’emergere delle notizie su ciò che accadeva nell’Istituto, il protagonista si trova a confrontarsi con il suo passato. Toccante è la scena in cui incontra uno degli ex reclusi in un bar.
Il finale, tuttavia, non riesce a raggiungere appieno l’intento emotivo desiderato e lascia lo spettatore in sospeso, non porta stupore, forse perchè il regista RaMell Ross vuole mettere alla prova lo spettatore e le sue doti d’investigate. Nickel Boys è un’operazione complessa e ben pensata, con un forte intento di creare empatia tra spettatore e protagonisti. Tuttavia, ci si affeziona ai personaggi, non solo per alcune scelte registiche, ma anche per una scrittura a tutto tondo. Risulta un’opera riuscita, che dimostra come ci sia ancora molto da dire su tematiche che potrebbero sembrare abusate o datate, ma che parlano dell’America di oggi e di storie umane il cui racconto è necessario.
Il seme del fico sacro di Mahammad Rasoulof.
di Pino Moroni
Il seme del fico sacro di Mahammad Rasoulof è un film imperfetto, non ben calibrato nelle sue due parti, ben evidenti e molto distanti sia nel ritmo, lento e riflessivo all’inizio e troppo frenetico nello sviluppo finale.
Ma comunque è un film con tante idee sulle strategie del potere tout court (teocratico, monarchico, dittatoriale, politico ed anche di genere, sociale, familiare ecc.). Con in fondo la evidente condanna di qualunque forma di inquisizione e di proibizione da parte di generazioni conservatrici tradizionali, che le hanno subite (per poter vivere meglio e per ambizione) e vorrebbero farle subire alle nuove generazioni (per fede e complicità).
Siamo in Iran (2022) nel momento in cui le donne sono scese in piazza per contestare la segregazione femminile ed in particolare il codice di abbigliamento islamico dello Hijab. Al velo ed al comportamento dimesso hanno risposto con capelli al vento e liberazione femminile con il motto: “Donne, vita e libertà”. Ma il sistema poliziesco le ha massacrate di botte, arrestate, incatenate, torturate e sommariamente condannate anche a morte.
Iman (Missagh Zareh) è un uomo all’apparenza buono, gran lavoratore, affezionato alla sua famiglia, proprio in questo momento nominato giudice istruttore del Tribunale Rivoluzionario di Teheran e costretto dal sistema ottuso e violento del regime degli Ayatollah, contro ogni forma di civiltà, al ruolo di carnefice.