
Negli ultimi anni c’è un grande interesse per la storia di Pamela Anderson, vittima del sessismo e dell’ipocrisia di Hollywood, che la consacra come l’ultima pin-up attraverso Baywatch, per poi relegarla a costumi succinti, pose sexy di Playboy e infine abbandonarla, dopo lo scandalo del sex tape, che le è costato la fine della carriera e la perdita di un figlio.
In questi due anni ne abbiamo ripercorso la vita attraverso la serie Pam e Tommy e il documentario Netflix Pamela, a Love Story, ma era ora che qualcuno le desse un ruolo che potesse restituirle lo spessore drammatico, con cui potesse raccontare sé stessa e la sua parabola nel mondo dello show business. Questa opportunità le viene data da Gia Coppola, nipote di Francis Ford, che si è fatta notare con le opere Palo Alto e Mainstream.
Non c’è solo Pamela Anderson, ma un cast di donne che avrebbero lungamente da ridire sull’industria cinematografica americana: Jamie Lee Curtis, che per anni è stata considerata solo la figlia di Tony Curtis e Janet Leigh, poi star dell’horror con la franchise di Halloween, e quando ha avuto la sua svolta comica con Una poltrona per due e Un pesce di nome Wanda, in molti hanno storto il naso; Brenda Song, moglie di Macaulay Culkin, che spesso viene considerata solo per questo; e Kiernan Shipka, star di alcune serie teen come Sabrina vita da strega e figlia di Don Draper in Mad Men, che sta ancora aspettando il ruolo che la faccia diventare famosa. L’unica parte maschile viene data a Dave Bautista, nel ruolo dello schivo Eddie, buono e gentile, ma comunque con una patina di maschilismo, pronta a venire fuori.
Il film mostra un gruppo di ballerine del Razzle Dazzle, uno spettacolo vecchio e fuori moda che sta per chiudere, gettando le protagoniste, specie le non più giovani, nel panico e costringendo il personaggio di Shelly (Pamela Anderson) a riprendere in mano la sua vita professionale e personale.
Sullo sfondo, una Las Vegas vecchia, brutta, un po’ lynchiana e piena di cantieri, che diventa a sua volta una delle protagoniste del film, rappresentando una sorta di viale del tramonto di un mondo che non esiste più, che però è ancora vivo e pulsante, ma non interessa più a nessuno.

Gia Coppola, usando una fotografia eccessivamente luminosa con un quadrangolo decisamente aperto degno di Duccio di Boris, ci racconta questo periodo così difficile di queste donne, a cui viene esplicitamente detto (c’è un punto del film in cui succede), che sono obsolete, vecchie e non più belle. Una regia che si concentra sui loro corpi, sui passi di danza, mettendole in luoghi aperti dove le donne sembrano piccole, facendole vedere nelle loro imperfezioni, con le loro rughe e con i loro corpi non più giovani.
Hollywood, che è la principale fautrice dello sfruttamento del corpo femminile, negli ultimi anni ha subito un riposizionamento: sempre più film parlano di corpi femminili, Anora di Sean Baker, The Substance di Coralie Fargeat, Maria di Pablo Larraín e Baby Girl di Halina Reijn.
Il corpo femminile diventa quindi un territorio politico, per discutere dei doppi standard uomo-donna, dei compromessi che le donne sono pronte a fare per lavorare, delle pressioni sociali a cui sono esposte se sono madri, non sono madri, se invecchiano e per il loro aspetto fisico. Il film centra perfettamente questa tematica e regala una sorta di verità a un mondo eccessivamente fatto di lustrini e strass.
Al centro anche la solidarietà femminile, di cui queste donne di diverse generazioni sono capaci, una riflessione sui rimpianti e sulle scelte che facciamo.

Altra tematica assolutamente centrale è il rapporto madri-figlie: figlie biologiche e non, madri biologiche e non. Essere madre non significa essere perfetta. Un po’ come Mickey Rourke in The Wrestler, film che riecheggia parecchio, anche Shelly tenta di ricostruire un rapporto con la figlia, che si è sentita messa da parte per la carriera da ballerina. Questo tema dona ulteriore umanità al personaggio, per cui proviamo grande simpatia ed empatia, anche per la sua imperfezione. Allo stesso tempo, il film ha anche il pregio di essere equilibrato nel rapporto madre-figlia, senza parteggiare per l’una o per l’altra.
Perché giustamente Gia Coppola, in vari momenti del film, ci ricorda che l’abbandono dei genitori è qualcosa di estremamente doloroso: “le nostre madri non sono perfette”, si dice a un certo punto del film, ma sono le uniche che abbiamo.
The Last Showgirl non è un The Wrestler al femminile: è un film con una sua dignità e con un’idea molto centrata, che riprende un modo di fare cinema vintage, dove riecheggia il grande cinema indipendente americano, ma con tematiche molto moderne, grandi interpreti, una regia chiara e ben determinata. Una sorta di manifesto dell’imperfezione e una dichiarazione d’amore a un mondo che non c’è più.
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