
di Letizia Piredda
Per capire l’operazione fatta da Mangold con questo film e dargli il giusto valore, dobbiamo inserirlo nel contesto dei documentari e dei biopic che sono stati realizzati su Bob Dylan nel corso del tempo.
Primo fra tutti Don’t look back (1967), il documentario di D.A. Pennabaker che segue le tappe del tour inglese dopo la svolta elettrica di Newport, dove si intersecano dimensione intima e performance musicali. Sicuramente meno noto del monumentale No direction home (2005) di Scorsese, che da vero fan di Bob Dylan racconta in modo dettagliato, con interviste e registrazioni inedite, la prima fase della sua carriera, sottolineandone la genialità e la ruvidezza tipica della sua voce e del suo carattere.
Ma il contributo più spiazzante è stato senza dubbio quello di Todd Haynes Io non sono qui (2007) che, partendo dall’assunto che Bob Dylan per la sua complessità e inafferrabilità non potesse essere rappresentato, decide di spezzettare il film in sei episodi, interpretati da sei attori diversi ognuno dei quali rappresenta un aspetto diverso di Bob Dylan: il Poeta, il Profeta, il Fuorilegge, il Falso, il Martire del rock and roll e la Stella elettrica.




In alto a sn: Pete Seeger (Edward Norton), in alto a dx: Woody Guthrie (Scoot McNairy). Sotto a sn Bod Dylan (Timothè Chalamet), sotto a dx Dylan/Chalamet con la fidanzata Sylvie (Elle Fanning).
Di fronte a scelte così differenti l’una dall’altra, Mangold decide di percorrere una via più tradizionale, ma operando delle scelte al rialzo: al centro del film c’è la musica, il folk, il blues, con tutti i suoi profeti: Woody Guthrie, Pete Seeger, Odetta, Joan Baez. Bob Dylan, interpretato da un Timothè Chalamet alla sua più grande prova attoriale, assimila e reinterpreta in modo originale la musica folk, imponendosi in breve tempo al Newport Folk Festival. È un film corale dove anche la dimensione privata affettiva di Bob Dylan, dopo qualche accenno separato, confluisce nel grande affresco musicale del Newport Festival, tempio della musica folk. E la bravura di Mangold sta nel sottolineare quel passaggio così critico ma così necessario che Bob Dylan attua nella parte finale: la svolta elettrica, riuscendo a far sentire al pubblico stesso quello strappo, quella spaccatura che in un lampo mette su versanti avversi Pete Seeger e i suoi seguaci, e Bob Dylan. Anche il pubblico reagisce con fischi e reazioni di protesta di fronte a questo passaggio epocale.




In alto Dylan/Chalamet, e sotto Joan Baez e Dylan al Festival di Newport
E il film ci sollecita a molteplici riflessioni: una su tutte, che la musica non deve e non può mai rinnegare le sue radici, ma deve trasformarsi, deve tentare nuove forme, deve divenire altro se vuole continuare a vivere. E Bob Dylan questo lo sapeva molto bene.
Il cast è stato scelto con grande oculatezza: una grandissimo Norton (Pete Seeger), un Timothè Chalamet che supera una prova attoriale da brividi, cantando in prima persona non 2 o 3 canzoni, ma 40. Lo stesso dicasi per la bravissima Monica Barbaro, una Joan Baez dolce e determinata, che canta il folk song con una bellissima voce da soprano.

Aggiungo una piccola nota personale: Bob Dylan e Joan Baez mi hanno accompagnato con la loro musica fin dall’adolescenza, quando mi chiudevo in camera a sentire uno dei primi vinili intitolato Folk digest affollato di cantanti dell’epoca (Joan Baez, Odetta, Leon Bibb, Sonny Terry, The Weavers). Quando ho visto il film non avevo letto né sentito nulla e quando sono uscita avrei messo la mano sul fuoco che le voci che avevo sentito fossero quelle originali di Bob Dylan e Joan Baez!
Brava Letizia!