The Brutalist di Brady Corbet

di Giulia Pugliese

Brutalismo
[dall’ingl. brutalism, der. di brute «rozzo, non rifinito»]. – Movimento architettonico formatosi in Inghilterra negli anni ’50 del Novecento, come risposta formale alla crisi dei metodi del razionalismo; rivaluta le esigenze funzionali, predilige alcuni tipi di materiali rustici (calcestruzzo, mattoni, ecc.) ed esibisce volutamente gli elementi tecnici e strutturali della costruzione.

Le grandi epopee americane continuano a incantare e meritano di essere raccontate. Pensiamo all’incredibile affresco western che Kevin Costner ha realizzato con Horizon, diviso in quattro capitoli. Ma cosa succede se le narrazioni che di solito glorificano un paese, lo criticano e servono a mostrare ciò che c’è di marcio in esso? The Brutalist ci parla di un uomo che ha perso tutto e che, come unico scudo, ha il suo talento. Il film ne racconta i fasti e i fallimenti, con una messa in scena cupa, grandiosa e dettagliata che ricorda proprio le grandi epopee americane, ribaltandone però il concetto e l’uso: invece di glorificare gli Stati Uniti, The Brutalist diventa il grande racconto che gli punta il dito contro, mettendone in luce i difetti, una società sistemica che punta a omologare gli individui, a renderli mediocri. Se gli individui non si conformano, diventano elementi da rigettare.
Brady Corbet riprende la magnificenza dell’epopea americana per costruire un racconto antiamericano, ispirato solo vagamente a La Fonte Meravigliosa di King Vidor. Al centro della storia c’è Lazló Tóth (Adrien Brody, scavato, dolente e con un perfetto accento ungherese), un ebreo ungherese scappato dal campo di concentramento di Dachau, un uomo che ha attraversato l’inferno e lo porta dentro di sé, ma che possiede anche un incredibile talento per l’architettura moderna. È un uomo troppo avanti per i suoi tempi, già troppo segnato dall’esperienza dell’Olocausto per combattere davvero. Non così diverso dagli emigrati moderni, che arrivano in Occidente per rifarsi una vita, ma sono annichiliti dalle esperienze drammatiche nei loro paesi e dai viaggi, spesso compiuti illegalmente.

Il film di Corbet adotta scelte razionali come l’architettura brutalista, ma forse è l’opposto di questa perché la sua messa in scena, fluviale, fastosa e imponente, rappresenta la grandezza del film, creando un patchwork di stili: la prima parte è girata come se fosse ambientata negli anni ’50, richiamando i documentari dell’epoca sulla Pennsylvania; la seconda parte è più oscura e cupa, con scene ambientate nelle cave di marmo e una soluzione finale moderna e documentarista. Un film in cui la ricerca sull’immagine e sulla storia è elevata; ci viene proposto un cinema che è Cinema con la C maiuscola, in cui si percepisce la fatica, anche degli attori, e l’attenzione in ogni singolo fotogramma (come la fotografia inserita nella pausa tra la prima e la seconda parte). Tuttavia, quest’opera non va vista solo come una perfetta messa in scena o un esercizio di stile, ma come un linguaggio al servizio di una storia che è sia individuale, quella di ciò che gli Stati Uniti hanno tolto a Lazló Tóth come uomo e come artista, sia collettiva, scavando dentro quel tabù che è l’antisemitismo americano. Si racconta sempre che migliaia di ebrei dell’Europa orientale furono accolti negli Stati Uniti, ma a che prezzo? Quale sarebbe stata la necessità di creare Israele se questa accoglienza fosse stata piena e non avesse richiesto l’omologazione? Infatti, si integra il cugino “americano” che si converte al cattolicesimo, sposa un’americana cattolica e chiama l’impresa con il cognome della moglie.
The Brutalist è grande cinema perché la comunicazione va di pari passo con la messa in scena. È la storia di un uomo che diventa irriconoscibile e che si estranea da se stesso. Il film inizia con lui che compie un gesto nobile nei confronti di un altro come lui, Gordon (Isaach de Bankolé), un afroamericano povero, e termina con lui che ha perso totalmente disinteresse e rispetto per il prossimo, vivendo con senso di colpa il rapporto con la moglie malata, Erzsbeth Tóth (Felicity Jones), mentre la società e il suo antagonista cercano di renderlo mediocre. L’antagonista di Lazló, il signor Van Buren (Guy Pierce), inizialmente lo elogia e gli offre un lavoro, ma poi lo schiaccia e lo umilia, quando capisce che non potrà mai controllare lui né il suo talento.

Venezia 81 è stato un festival in cui si è parlato molto di eroina (Queer, la storia di William S. Burroughs negli anni in cui tenta di disintossicarsi, e Il tempo che ci vuole, che racconta la tossicodipendenza di Francesca Comencini). The Brutalist ha il grande merito di trattare l’argomento senza giudizi (raro per un film americano), riprendendo narrazioni come Il ragazzo dal braccio d’oro di Otto Preminger e Un uomo da marciapiede di John Schlesinger. Anzi, l’eroina sarà salvifica per il protagonista, permettendogli di riconciliarsi con la moglie.
The Brutalist è la versione acida, maleodorante e amorale de Il petroliere (quasi simili infatti le due scene di esplosione di violenza e disvelamento dei due film). Questo film ferisce, ancora prima di arrivare alla scena che rappresenta lo snodo narrativo, che, se devo trovare un piccolo difetto al film, ho trovato un po’ gratuita. Antiamericano come pochi film degli ultimi anni (infatti nella prima scena capovolge la Statua della Libertà), Brady Corbet attribuisce parte della colpa agli Stati Uniti per la migrazione di così tanti ebrei verso Israele e, quindi, per la situazione attuale di guerra. Nel discorso di Erzsbeth, che negli Stati Uniti si fa chiamare Elizabeth, dice: “Andiamocene, andiamo in Israele, perché questa è una società marcia, dove non potrò ambire a fare di meglio che scrivere di rossetti e borse, io che ho studiato a Oxford e che sono più colta di voi”. The Brutalist è brutale perché la storia lo è stata, ma come dice il film, “non conta il viaggio, ma la meta”. Solo alla fine, e solo attraverso la sua arte, riusciamo a capire Lazló Tóth [1]. Vincitore meritato del Leone d’Argento per la regia.

Note

[1] Piccolo retroscena: Lazló Tóth è esistito davvero. Era un operaio ungherese che, nel 1972, vandalizzò la Pietà di Michelangelo nella Basilica di San Pietro.

Informazioni su Giulia Pugliese 31 Articoli
Giulia Pugliese Scrittrice Educazione 2011 - Master in EUC Group & CEERNT European Project 2006/2010 - Laurea triennale in Cooperazione allo sviluppo Esperienze lavorative 2024 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online Odeon 2023 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online I-Films 2022/2023 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online Long Take Premiazioni Vincitrice del concorso di scrittura per la critica cinematografica over 30 indetto da Long Take Film Festival quinta edizione - 2023
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