Il mio giardino persiano di Maryam Moghaddan e BentashSanaeeha

“Libertà non ne vedo molta” Mahin

Il mio giardino persiano è un film dalla doppia anima: i temi esistenziali, come la solitudine e l’invecchiamento, si intrecciano, anche in forma metaforica, con quelli sociali e politici. Il cinema di Maryam Moghaddan e Bentash Sanaeeh, che ha incantato Berlino nell’edizione dello scorso anno vincendo il premio della giuria e un altro concorso secondario, che i due registi non hanno potuto ritirare perché il regime non ha rilasciato loro i visti per viaggiare. Era già stato protagonista alla Berlinale nel 2021 con La ballata della mucca bianca, che aveva ottenuto ottimi consensi. Un film altrettanto metaforico, ma più cupo de Il mio giardino persiano.

Il nuovo cinema iraniano è sicuramente un cinema militante, che guarda alla società e allo scontento politico, ma non è solo questo, perché riesce a dare vita a un’umanità pulsante e reale, ai suoi desideri intimi e alla quotidianità, che spesso il regime oscura. Il nuovo cinema iraniano, mette in scena un paese, dove le persone non hanno spazi privati: il regime si insinua dappertutto, anche negli spazi che dovrebbero essere intimi e personali. Oltre al problema dei diritti civili, della censura e dei diritti umani costantemente violati, l’Iran è un paese che sta invecchiando rapidamente, a causa della grande migrazione di giovani, il che lo porta ad avere i tassi di natalità più bassi di tutto il Medio Oriente. L’inflazione, ormai alle stelle, sta impoverendo la popolazione ed erodendo i servizi pubblici, che non riescono ad affrontare questo problema. Perciò la storia di Mahin è verosimile e reale: per tutto il film vediamo sullo sfondo una Teheran vuota e popolata da anziani.

La vita di Mahin (Lili Farhadpour), vedova da 30 anni, è fatta di visite sporadiche delle amiche, soap opera con storie d’amore strappalacrime, telefonate con la figlia distratta e soffocante, che vive in Svezia, e passeggiate in solitudine. Alla solitudine si aggiunge lo smarrimento di non riconoscere più il proprio paese, così cambiato, la difficoltà a trovare un posto nella società e una motivazione per andare avanti. Per questo, incalzata dalle sue amiche, Mahin tenterà un approccio audace, soprattutto per il mondo arabo e per la sua età, invitando a casa sua il tassista Faramarz (Esmaeel Mehrabi). È un incontro pieno di gioia, canti, balli, desiderio e vino proibito.

Per la prima parte del film, la donna è sempre inserita in un contesto: la casa, l’hotel, il parco. La osserviamo da una certa distanza, come se la stessimo studiando. Anche quando è con le sue amiche, la telecamera si mantiene a debita distanza. Solo quando incontrerà Faramarz, e con l’aumentare dell’intimità, ci avvicineremo a lei. Il mio giardino persiano, oltre a essere un film sui sentimenti e sull’intimità che si crea tra le persone, è anche un film di ambienti: la grande casa di Mahin in primis e gli spazi di Teheran, così vuoti, come l’hotel Libertà, che un tempo si chiamava Hayat, dove si andava a vedere i concerti con i tacchi.
Ma non c’è solo il rapporto con Faramarz, significativo è l’incontro con una ragazza nel parco (Melika Pazouki), che sta per essere arrestata dalla Polizia della morale, denota un’unione generazionale nel rimpiangere il vecchio Iran. E porta con sé una sorta di tristezza per queste generazioni, che forse non vedranno mai la fine del regime, oltre alla prepotenza delle autorità nei confronti delle due donne.

Nel film, Mahin è costantemente bombardata dall’idea che non possa rimanere da sola: le sue amiche, le soap opera e la società in generale la spingono a cercare una sorta di felicità che dipenda dall’amore e da un uomo. Viene quindi da pensare che la trasgressione di Mahin sia indotta, tuttavia questo incontro porterà grande gioia nella sua vita. È verosimile che due persone possano provare un colpo di fulmine o un innamoramento istantaneo, tanto che i due anziani sembrano due ragazzini. Tuttavia, nell’Iran della rivoluzione islamica, non c’è spazio per la gioia, la sessualità e il piacere.

Il mio giardino persiano riesce a rivitalizzare i temi cari al nuovo cinema iraniano. Paradossalmente, mettendo in scena due anziani, personaggi poco trattati in questi film,ci vengono in mente il padre di Leila e i suoi fratelli, che però è un personaggio comico e  macchiettistico, e, in Una separazione, il padre anziano di Nader, che deve essere accudito. In quest’opera, Mahin e Faramarz sono due personaggi pulsanti, pieni di vita e di desiderio. Questa è un’ulteriore provocazione per il regime: l’abbattimento del tabù della sessualità in terza età e il falso mito che le generazioni più anziane siano reazionarie o particolarmente religiose.
Nel film c’è una sorta di delicatezza e, allo stesso tempo, di forza. Anche se la storia rimane sul piano metaforico, la critica arriva forte e dura, mentre l’avvicinarsi ai personaggi è intimo e delicato. L’opera coniuga l’aspetto politico e personale, senza che uno prevalga sull’altro, facendoci sentire il dramma di Mahin e di tutto l’Iran.

Informazioni su Giulia Pugliese 30 Articoli
Giulia Pugliese Scrittrice Educazione 2011 - Master in EUC Group & CEERNT European Project 2006/2010 - Laurea triennale in Cooperazione allo sviluppo Esperienze lavorative 2024 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online Odeon 2023 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online I-Films 2022/2023 - Scrittrice di critica cinematografica per il blog online Long Take Premiazioni Vincitrice del concorso di scrittura per la critica cinematografica over 30 indetto da Long Take Film Festival quinta edizione - 2023
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