di Mattia Migliarino
«La vita è come un’opera teatrale: non conta quanto è lunga, ma come è recitata.» – Seneca
Dal 30 settembre al 6 novembre, i film del ciclo delle commedie e dei proverbi sono
stati riproposti al cinema.
Éric Rohmer, tra i grandi nomi della Nouvelle Vague, ha saputo interpretare come pochi la complessità delle relazioni e delle emozioni umane. Famoso per i suoi cicli cinematografici, il Ciclo delle Commedie e Proverbi (1981-1987) si colloca tra il ciclo precedente de I sei racconti morali (1961-1972) e quello successivo dei Racconti delle quattro stagioni (1990-1998). Cos’è, infatti, che rende le scelte amorose di passione tanto inevitabili quanto inspiegabili? Con questo ciclo, Rohmer costruisce una specie di antologia delle relazioni moderne, spingendoci a riflettere su come la società condizioni i legami e i
sentimenti individuali. Recentemente, questi film sono stati riproposti in sala dal 30 settembre
al 6 novembre, offrendo l’opportunità di riscoprire queste storie universali per circa due giorni
a settimana. Ognuno dei sei film, ispirato a un proverbio o aforisma, scandaglia con ironia e
profondità il senso dell’amore, della libertà e della ricerca di autenticità. È importante notare
che La moglie dell’aviatore (1981), un altro capolavoro di Rohmer e primo film del ciclo, è
già stato analizzato nello scorso articolo di Odeon dedicato al maestro francese.
Alla base di molti di questi film vi è il conflitto tra indipendenza e stabilità. Le notti della
luna piena (1984), con Louise (Pascale Ogier), ne è un esempio emblematico. Louise cerca di
conciliare l’amore per il suo compagno con il desiderio di mantenere un proprio spazio
autonomo, riflettendo una tensione sempre attuale tra spazio personale e relazione di coppia.
Questa tensione si ritrova spesso in Il bel matrimonio (1982), dove Sabine (Béatrice Romand)
tenta di costruire una relazione stabile, desiderosa di rispettabilità e sicurezza, spinta però più
da una visione idealizzata che da un sentimento reale. Rohmer osserva con delicatezza come
Sabine si illuda e, infine, si confronti con le sue stesse aspettative, dimostrando come spesso
l’amore sia più immaginato che realmente vissuto.
Un’altra tematica centrale è la ricerca di autenticità. Questo tema attraversa in particolare Il
raggio verde (1986), dove Delphine (Marie Rivière) insegue una verità assoluta nell’amore,
disdegnando qualsiasi legame che non soddisfi i suoi ideali. L’autenticità per Delphine è
sinonimo di assoluto e, come nel caso del fenomeno del “raggio verde”, risulta fugace e
sfuggente, lasciandola in una solitudine che cresce insieme alla sua indipendenza.
Similmente, in Pauline alla spiaggia (1983), la giovane Pauline (Amanda Langlet) osserva e
giudica l’ipocrisia degli adulti che la circondano, scoprendo, forse per la prima volta, che la
sincerità e l’amore possono essere difficili da conciliare. Per Pauline, l’amore si rivela più
ambiguo e complesso di quanto immaginasse, insegnandole che spesso ciò che appare come
passione è, in realtà, un riflesso dei desideri e delle incertezze degli altri.
In alto a sn: L’amico della mia amica; a dx: Il bel matrimonio. Sotto a sn: Pauline alla spiaggia, a dx: Le notti di luna piena
Ma Rohmer esplora anche la leggerezza e la spontaneità nei rapporti in L’amico della mia
amica (1987), dove i protagonisti si muovono con disinvoltura tra amicizie e relazioni. Qui
non vi è la tensione tipica degli altri film, ma una fluidità che abbraccia le imperfezioni e
lascia spazio a incontri inaspettati, suggerendo che forse la risposta ai dilemmi amorosi sta
proprio nell’accettare l’incertezza. Rohmer ci invita a considerare una prospettiva meno
drammatica, mostrando che la leggerezza, lungi dall’essere superficialità, può offrire un
equilibrio prezioso e liberatorio.
Gli ambienti in cui queste storie prendono vita non sono mai semplici sfondi. Ogni luogo
riflette i conflitti e le aspirazioni dei protagonisti: la periferia ordinata in Le notti della luna
piena (1984) contrasta con la vivacità parigina, mentre il movimento continuo di Delphine in
Il raggio verde (1986) diventa un simbolo del suo stesso vagare interiore. In L’amico della
mia amica (1987), la moderna geometria di Cergy-Pontoise diviene metafora di un amore
che, come la città, può essere mutevole e inaspettato.
Il cineasta francese ci offre un ritratto di una società in cui amore e relazioni sono
continuamente messi alla prova tra il desiderio di autenticità e la pressione di modelli sociali
spesso irraggiungibili. Ma c’è una critica politica di fondo: Rohmer s’interroga su cosa
significhi realmente la libertà, se possa davvero esistere in un contesto sociale o se, in
qualche misura, siamo tutti prigionieri delle aspettative. Con uno stile inconfondibile, il
regista crea un linguaggio visivo e narrativo che solleva domande universali. Chi guarda
questi film non può fare a meno di riflettere sui sentimenti dei protagonisti, lasciando che le
storie di Rohmer tocchino corde personali e intime, fornendo risposte inaspettate alle
domande più complesse che tutti noi ci poniamo. E se amare ed essere liberi non fosse altro
che accettare l’imperfezione della nostra stessa umanità?