di Lorenza Del Tosto
“Eh però c’è un limite anche alla bellezza…” esclama una signora che, voltandosi nell’ entrare in sala alla proiezione di Good Bye Julia, resta abbagliata da Sirian Riak, Julia nel film , che è lì alle sue spalle. Alta, statuaria, un cappotto di cammello gettato sulle spalle, magnifici sandali di perle, abito sinuoso, pelle di cioccolata chiara vellutata, occhi luminosi. Una top model di 28 anni originaria del Sud Sudan e ora residente a Dubai.
“Incoronata Ms Sud Sudan e Ms Africa/Malaysia… Ha sfilato per Bulgari con un abito da 15 milioni di euro… Modella per magazine prestigiosi come Vogue e Bazaar. Disegna abiti. Ha scritto un libro sulla moda.” Così recita il pressbook.
Ma quando la incontri i dati biografici scompaiono e quella che ti avvolge è una sensazione di dolcezza, calore, sensibilità ed intelligenza e qualcos’altro a cui non sappiamo dare nome. È un modo di stringere la mano, di guardarsi attorno, di aspettare senza fastidio o insofferenza. Uno spessore nei gesti, una luce negli occhi di chi ha molto vissuto, e molto sopportato, e sa che il lusso e l’eleganza non sono maschera, ma una forma di resistenza.
È in giro in Italia da una settimana per presentare Good bye Julia. È tutto nuovo per lei: lo squisito cibo italiano, e anche il freddo, questo freddo costante che gli altri attorno a lei non sembrano avvertire.
L’accompagna la sua meravigliosa distributrice che ha organizzato le tappe italiane e quest’ ultima serata romana. Siran la segue divertita, un poco stordita, docile e grata.
Doveva essere con loro anche l’altra bellissima coprotagonista: Eiman Yousif, che interpreta il personaggio di Mona. Attrice di teatro sudanese, vocalist e musicista , suona il kanun, uno strumento della tradizione classica araba. Ora vive in Egitto e un problema di visto le ha impedito di partire.Sarebbero dovute essere qui insieme a presentare questo piccolo gioiello che a Cannes ha vinto il premio della libertà e, in due ore, svela a spettatori ignari
una realtà, quella del Sudan, che notizie e giornali ritraggono in forma di buco nero che divora inarrestabile, e anche incomprensibile, il suo stesso popolo.
Good bye Giulia invece ci racconta un Paese attraverso una storia intima, personale, familiare. Attraverso il dilemma etico di una donna con il suo corollario universale di colpa, rimorso, espiazione.
La macchina da presa entra nelle case, nelle cucine, status sociali diversi, ma stessa impronta patriarcale, scopriamo locali dove si suona musica frequentati di nascosto da una donna che ha dovuto rinunciare alla sua passione pur di avere un uomo al fianco.
“Allora il Sudan è anche questo” pensiamo sorpresi, scioccamente sorpresi, perché sappiamo bene che gli esseri umani, a qualunque latitudine, sono mossi e guidati dalle stesse emozioni, sogni, passioni. Ma ce ne scordiamo e servono storie che ci aiutino a ricordarlo. Storie come questa: alla vigilia della Secessione del Sud Sudan, Mouna, una musulmana benestante di Khartoum, provoca involontariamente la morte di un giovane uomo del Sud, cristiano e animista e, distrutta dal senso di colpa, assume la sua ignara moglie come domestica per aiutarla economicamente e redimere così il proprio peccato.
Ora, alla fine della proiezione, Sirian Riak si siede davanti al pubblico romano. Roma è la sua ultima tappa in Italia prima di tornare a casa. Unica sud sudanese tra gli attori principali di Good bye Julia sorride un poco intimidita dalla responsabilità di presentare un film che ha richiesto anni di lavorazione. Di parlare a nome del regista e sceneggiatore Mohamed Kordofani: ingegnere aeronautico sudanese che ha lasciato il lavoro ed i suoi ingenti compensi, per fondare una casa di produzione e scrivere e girare il suo primo film.
Good bye Julia è servito a lui, uomo del Sudan del Nord, come lo stesso Kordofani ha detto in diverse occasioni, ad elaborare il suo razzismo. Il Referendum del 2010, in cui il Sudan del Sud ha votato con un 99% a favore della separazione dal Sudan, lo ha profondamente toccato. Gli ha aperto gli occhi. Si è accorto che le uniche persone che conosceva del Sud Sudan erano collaboratrici domestiche. Ha capito che il Sud Sudan voleva disperatamente separarsi dal loro razzismo del Nord.
Siran è in attesa delle domande. Queste persone che la guardano piene di ammirazione potranno davvero comprendere quello che lei sta per dire: potranno capire cosa vuol dire razzismo in Sudan?
“Può raccontarci come è stato l’incontro con Kordofani?” le chiedono.
Sorride e si schernisce.
“È successo tutto nel modo più incredibile. Mi ha trovato su Istagram. Mi ha scritto che stava lavorando ad un film, mi ha dato i nomi delle persone coinvolte: nomi famosi a livello internazionale. Stava cercando Julia e non riusciva a trovarla né in Egitto né in Sudan. L’aveva cercata da per tutto.
Potrei venire a Dubai a farle un provino. Ha concluso. Si tratterà solo di qualche ora.” Siran si ferma un istante, sorride al ricordo. “Ho accettato ma non l’ho presa seriamente. Mi imbarazza dirlo ma non ho neanche letto il copione che mi aveva mandato. Non avevo idea di cosa fosse un provino. Pensavo volesse vedere come me la cavavo sulla passerella. Mi ha fatto improvvisare, piangere, ridere. E così è andata.” Conclude senza vanto. “Ora provo una grande ammirazione per lui. È riuscito davvero a far capire cosa abbiamo vissuto. Ho lasciato il Sudan da tempo, ma tornare, per interpretare questo film, mi ha permesso di capire tante cose. Si parla sempre della questione politica e non si pensa mai alla parte umana.”
“Come è stato per lei tornare in Sudan?”
Devono averglielo chiesto tante volte eppure, seduti accanto a lei, sentiamo forte la sua emozione. La potenza incontenibile dei ricordi. L’ambiguità di un ritorno impossibile.
“Era la prima volta che tornavo, ed è stata un’emozione indicibile rivedere le strade che percorrevo, la scuola che frequentavo. Un misto di tristezza, felicità, rabbia. Sono emozioni che mi hanno aiutato ad interpretare Julia. So che al cinema non dovrebbe funzionare così. Ma io non recitavo, la mia era emozione vera.”
Duro deve essere il ritorno in una terra che ami e in cui non puoi restare. Perché se il film traccia un percorso di libertà per le protagoniste, per il Paese sembra esserci un inesorabile futuro di guerra. Te ne vai dal Sudan, ma il Sudan non ti lascia.
“Come è vivere a Dubai?” le abbiamo chiesto poco fa, in attesa dell’incontro, passeggiando per le strade romane cercando rifugio dal freddo.
“Dipende. Mia sorella ha la nazionalità americana e può ottenere tutto subito. Se sei sudanese è tutto difficile. Complicato. Ci vogliono anni per aprire un conto in banca. Anni per avere qualunque cosa. Nessuno si fida.” Ha risposto con un sorriso e una stretta di spalle. “Non mi prendono sul serio. Se sei bella sei stupida. Io parlo arabo e capisco quello che dicono su di me.”
“Non glielo dici che parli arabo?”
“No, non glielo dico.”
“Come è stato recitare per la prima volta…?”
“Sono abituata a posare davanti ad un obiettivo per promuovere o vendere un abito. Ma non avevo mai recitato davanti ad una macchina da presa. Con il resto del cast abbiamo seguito un seminario di dieci giorni. Ci hanno insegnato a familiarizzare con il nostro personaggio. A crearlo. A conoscere i suoi colori preferiti, i suoi hobby, i luoghi dove gli piace andare. Sono diventata amica di Julia. Kordofani è un uomo molto gentile . Ti dice cosa vuole e…” sorride maliziosa “Ti tiene lì per ore finché non gli dai ciò che vuole. Ma per me era facile esprimere quelle emozioni: io ero spezzata dentro, come Julia. Spezzata.“ Ripete.
“Sono cresciuta respirando il razzismo. A scuola, noi sud sudanesi sapevamo, lo sentivamo, di essere persone…”Esita un istante. “…di seconda classe. Ti trattavano in modo diverso. Inconsciamente lo sentivi. A scuola l’ultima fila di banchi era sempre per noi. Non c’era scelta religiosa ma solo l’insegnamento dell’Islam. “ La malinconia scandisce il fiume inarrestabile delle sue parole. “Ti facevano capire che non dovevi mischiarti con loro. Che la tua presenza non era necessaria. Avevo amici sudanesi, certo, ma sotto c’era sempre qualcosa. Ero sempre io che dovevo andare da loro. Loro non venivano mai da me. Dovevo andare alle loro feste di famiglia, ma loro non sarebbero mai venute alle mie.”
Questo film è stato fatto per chiedere perdono a lei, e alla sua gente, ma il dolore è ancora fresco e non smette di essere alimentato. È questo, capiamo adesso mentre vorremmo allungare una mano e posarla sulla sua spalla, ad averci colpito al momento della presentazione: l’umiliazione sotterranea che scorre sotto la sua bellezza e la sua eleganza.
“E ora qualcosa è cambiato?”
“Io sono cambiata. Sono più consapevole adesso. Quando sono andata via, a 15 anni, ero troppo traumatizzata e non posso dire con certezza se quello che provavo fosse vero o frutto delle mie allucinazioni. Ma adesso che sono tornata ho sentito bene come mi trattavano: alla stessa maniera di un tempo. Ancora non avevano visto il film, non sapevano chi ero, ma il razzismo, il sentirmi persona di serie B era uguale. E questo mi ha spezzato.”
Si potrebbe parlare dei dettagli tecnici del film, delle difficoltà delle riprese durante i momenti di protesta nelle strade di Karthoum, dello scontro tra mondo arabo a Nord e mondo cristiano a Sud, ma il cuore porta da altre parti.
“In Sud Sudan hanno visto il film? Quale è stata la reazione?”
Subito la dolcezza e il sorriso scacciano la malinconia.
“C’è stata una proiezione. Ero molto spaventata e l’ho detto a Kordofani: Sono terrorizzata. Non so cosa potrà succedere. E lui mi ha tranquillizzato: qualunque cosa succeda l’affronteremo insieme. Ed è stato incredibile. Una reazione meravigliosa. Il mio popolo ha perdonato. È andato avanti. Siamo andati avanti. Adesso potrà venire una nuova generazione.” Dice in uno slancio di speranza, di gioia come uno strappo dai ricordi bui. “Le nuove generazioni non vivranno quello che noi abbiamo vissuto. Io amo il mio popolo e loro mi amano. Andremo avanti.”
Si riveste di un sorriso luminoso che non è una maschera, ma dolce forma di resistenza. Sorride e si intrattiene a parlare con il pubblico e con alcuni connazionali presenti in sala.
Ora, giorni dopo, la immaginiamo tornata a Dubai, nell’agognato calore, a sfoggiare la sua bellezza fingendo di non capire i commenti in Arabo. Un’attrice meravigliosa venuta dal nulla. Avrà altre occasioni? Ci guardiamo attorno nelle strade romane e come diceva la sua battagliera distributrice: è una lotta tenere il film in sala. Ci si aspetta che un film sul Sudan non faccia grossi incassi. È appena uscito nelle sale ed è già quasi scomparso. Se è vero che c’è un limite alla bellezza, non c’è invece limite alla stoltezza. Rivediamo Siran maestosa e infreddolita in queste strade, come la piccola fiammiferaia vorremmo accendere tutti i nostri cerini per conservare il suo sorriso, la sua luce di speranza. Docile speranza di creature meravigliose che sbocciano eleganti nel buio, nel razzismo, nella terra insanguinata.