Il tempo che ci vuole (2024):quando la fragilità diventa forza.

Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio. Samuel Beckett

Ha una tessitura emotiva di grande impatto e una libertà stilistica che non conoscevamo, questo nuovo film di Francesca Comencini: la storia del suo rapporto col padre, che inevitabilmente si intreccia con la storia del regista, tra i fondatori insieme a Mario Monicelli, Dino Risi e Ettore Scola della commedia all’italiana. Lei ha 10 anni e segue il papà nelle riprese di Pinocchio, lo sceneggiato televisivo che ebbe un successo strepitoso. Si immerge nella storia e nella sua magia, vaga per il set, bellissima la scena in cui lei è in campo e non riesce a trovare la direzione per uscirne! Ma quando insieme al padre va a vedere la balena imbalsamata a Piazza del popolo, all’ultimo momento si tira indietro: il passaggio al reale sembra troppo brusco e una balena vera anche se morta diventa qualcosa di fortemente minaccioso.

Poi con un salto di vent’anni ci ritroviamo negli anni di piombo: sullo sfondo Piazza Fontana e il delitto Moro. Lei è diventata una donna bella, ma problematica. Ha seguito le orme del padre ed è diventata regista : “ho fatto un film … autobiografico” dirà al padre (si tratta di Pianoforte, la storia di due eroinomani) il padre scuote la testa dicendo che non capisce la tendenza dei giovani a fare film autobiografici e chiede di essere esonerato dal vederlo. Particolare la scelta di limitare la famiglia a lei e a suo padre: tutti gli altri non esistono in questo film, le sorelle e la madre. E questo per significare quanto fosse esclusivo il rapporto tra lei e il padre. Pian piano però le interazioni col padre si riducono a un saluto frettoloso quando esce e quando torna a casa. Finchè un giorno il padre butta giù la porta del bagno e scopre che lei si droga: per la prima volta il padre la sgrida e le molla uno schiaffo. Il dolore del padre,

però, è sì per la scoperta della droga, ma la cosa che sente insopportabile è che la figlia gli ha mentito: per un uomo della sua dirittura morale mentire equivale a spezzare un rapporto basato sulla fiducia, sull’autenticità, sul rispetto reciproco. Di fronte alla grave crisi della figlia, alla completa perdita di fiducia in se stessa e alla scelta autodistruttiva, il padre le risponde con le parole di Beckett:”Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio!” E poi senza tentennamenti decide di esserci: “io non ti lascio più, non ti lascio più”. E la sua presenza attiva, amorevole, diventa un’àncora di salvezza per Francesca, un primo aggancio per cominciare a reagire. Il padre le propone di andare insieme a Parigi, e Francesca chiede: “ma per quanto tempo?”, “il tempo che ci vuole” le risponde il padre. Si perchè l’elaborazione di una situazione così critica richiede tempo: richiede di sospendere la vita mentre la si vive, di risalire ai nodi traumatici che l’hanno causata. C’è una poesia di Juan Gelman dedicata al figlio piccolo che ancora non parla, che dice: “sai il tempo, tutto il tempo tra questa parola e il tuo tempo; sai l’aria tutta l’aria tra questa parola e la tua parola”. Il tempo che ci vuole: in questo caso per una crescita; per Francesca se vuole veramente uscire da una situazione esistenziale in cui è rimasta intrappolata, se si vuole trasformare la fragilità in forza. Come in analisi: si comincia un’analisi, ma non si sa per quanto tempo…Freud parlava di analisi terminabile e interminabile, anche se qualsiasi analisi non finisce con il cessare delle sedute ma continua come processo mentale. E la storia che vediamo in questo film ci travolge, ci emoziona fino alle lacrime, perchè fa risuonare la nostra storia e i nostri fantasmi, Sisifo

e la paura di non farcela…Freud diceva: ricordare, rielaborare, ripetere: per quanto tempo? Per tutto il tempo necessario, per tutta la vita forse, per il tempo che ci vuole appunto. Ci emozioniamo perchè la storia che vediamo è una storia esemplare: un padre, che riesce ad essere padre. Evento rarissimo in generale, ma in particolar modo nel tempo attuale, dove il padre non esiste più, come depositario della legge, e delle regole. “Cosa resta del padre?” è il titolo di un libro di Massimo Recalcati che analizza questo fenomeno. E ancora perchè questa storia si snoda tra la vita e il cinema: ” anch’io mi sentivo un fallito, non riuscivo mai a fare il film che volevo, ma poi ho imparato che potevo aggirare l’ostacolo con la fantasia…” dirà il padre a Francesca. Il cinema che li accomuna e li allontana: difficile per Francesca il rapporto con un padre-regista famoso che non poteva non adombrare la sua figura. Nel corso del film vediamo spezzoni di film rari: sono i film che Comencini raccoglieva e che poi hanno dato vita alla Cineteca di Milano. Anche sul piano stilistico questo film rivela una maggiore maturità e disinvoltura: i ribaltamenti di scena, il colore che si riversa sullo schermo. Commovente la scena finale del volo, un richiamo esplicito a Miracolo a Milano, con cui la regista riesce ad addolcire il dolore del distacco definitivo dal padre. Gli attori tutti bravissimi: da Gifuni che riesce in un modo spettacolare a calarsi nel personaggio fin nei minimi dettagli, a Romana Maggiore Vergaro, con la sua bellezza intensa, la sua incredibile mimica espressiva, alla piccola Anna Mangiocavallo che recita con una naturalezza sbalorditiva.
Il film è stato prodotto da Bellocchio: un film in cui una figlia viene salvata dal padre, mentre lui non è stato in grado di aiutare il suo fratello gemello che soffriva di depressione, e che alla fine si è tolto la vita. Un gesto commovente, ammirevole e riparatore!

About Letizia Piredda 191 Articles
Letizia Piredda ha studiato e vive a Roma, dove si è laureata in Filosofia. Da diversi anni frequenta corsi monografici di analisi di film e corsi di critica cinematografica. In parallelo ha iniziato a scrivere di cinema su Blog amatoriali.
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