TRILOGIA DEI COLORI
Film Bianco, o l’uguaglianza impossibile
di Martina Cossia Castiglioni
Premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 1994, Film Bianco è il secondo capitolo della trilogia dei colori dedicata da Krzysztof Kieślowski ai tre princìpi nati dalla Rivoluzione francese. In questo caso l’uguaglianza invocata dal protagonista, il parrucchiere polacco Karol (Zbigniew Zamachowski), nell’aula di tribunale dove si formalizza il suo divorzio con Dominique (Julie Delpy): da quando si sono sposati, l’uomo non è più stato in grado di fare l’amore con la moglie.
L’uguaglianza è subito negata, e non solo perché lui parla polacco e in tribunale si parla francese. Il giudice non ha interesse ad ascoltare le ragioni di Karol perché sono quelle del cuore, ben diverse dai codici e dalle leggi dei tribunali. Sin dall’inizio della pellicola il mondo di Karol e quello di Dominique sembrano inconciliabili. Il primo ha scarpe consumate, un soprabito liso, appare goffo e a disagio nell’aula; lei è bella, algida e sicura di sé. Dopo la sentenza lo lascia in mezzo alla strada con la sua ingombrante valigia, blocca il suo conto bancario e in seguito dà fuoco a una tenda del salone dove lavoravano insieme per attribuirgliene la colpa.
Karol si rifugia sotto la metropolitana e per tirare avanti suona motivetti polacchi con un pettine coperto di carta velina. Qui conosce Mikolay (Januz Gajos), un suo connazionale, ex giocatore di bridge che lo aiuterà a tornare in Polonia.
La valigia, che il regista aveva già mostrato agli spettatori nella prima sequenza del film (anticipando dunque una scena successiva), è l’insolito mezzo di trasporto che ricondurrà clandestinamente Karol nel suo paese. Ma la valigia e il suo contenuto – i diplomi e gli attestati dei concorsi vinti come parrucchiere – sono forse anche simbolo della sua vita fino a quel momento, e del poco che gli resta – un busto di donna in gesso, rubato in un negozio, e una moneta da due franchi.
In tutta la pellicola ricorrono elementi e immagini con una valenza simbolica. La presenza dei piccioni sembra caratterizzare i momenti più significativi dell’esistenza di Karol, come il giorno del matrimonio (che vediamo attraverso i suoi ricordi), o quello del divorzio, quando sulla scalinata del tribunale l’uomo aveva alzato gli occhi per seguire il volo di uno degli uccelli e questo gli aveva sporcato il cappotto: la prima delle tante umiliazioni che il protagonista subirà nel film.
Persino il giorno in cui Karol conosce Mikolay, che diventa il suo migliore amico, un colombo svolazza intorno a loro con insistenza.
Anche il bianco assume spesso un valore metaforico. Bianco è l’abito da sposa, bianco è il colore simbolo della purezza (quella del matrimonio non consumato), bianca è la luce in cui è avvolto il ricordo delle nozze nella mente di Karol; bianco il guano del piccione e bianco il busto femminile, simulacro della moglie perduta.
Bianca è la neve a Varsavia, ma mentre il protagonista cammina verso la casa del fratello Jurek (Jerzy Stuhr), la neve che calpesta non è candida, è mista a pioggia e terra. Quasi ad anticipare allo spettatore che il benessere economico che Karol raggiungerà nella seconda parte del film non nasce su basi di onestà e “pulizia”.
Oltre ad aiutare il fratello come parrucchiere, è assunto come scagnozzo in un giro di attività poco pulite, venendo a conoscenza di un potenziale affare che di fatto sottrae all’organizzazione alla quale appartiene il suo “datore di lavoro”: Karol acquista a poco prezzo da un contadino un vasto terreno (sul quale in futuro potrebbero sorgere dei grandi magazzini) per rivenderlo a una cifra altissima all’organizzazione.
Karol diventa quindi un ricco imprenditore, e il pettine, che prima era il suo strumento di lavoro, ora gli serve solo a sistemarsi i capelli impomatati, con un gesto vanitoso e ripetuto.
Per avvicinarsi al mondo di Dominique, l’uomo ha abbracciato il modello capitalista delle società dell’Ovest, abusando del potere che gli dà il denaro. Pur di rivedere la donna, le intesta tutti i suoi beni, poi mette in scena la propria morte. Dopo il funerale, al quale Dominique ha assistito, Karol si fa trovare da lei nel letto del suo albergo e adesso, da “non vivo“, rinunciando alla propria identità, riesce a fare l’amore con lei.
Paradossalmente, Karol e Dominique sono uguali soltanto quando entrambi hanno esercitato la propria crudeltà l’uno contro l’altra. All’abbandono e alle continue umiliazioni subite dalla moglie, l’uomo ha risposto con la sua vendetta. Le autorità francesi la arresteranno per il presunto omicidio dell’ex marito.
Una vendetta amara e un’uguaglianza illusoria, falsa. Alla fine della pellicola, in fondo, non è cambiato nulla. Karol, anagraficamente morto, vive come un clandestino nel suo paese, e come era accaduto a Parigi (quando non gli era rimasto più niente) non può che guardare Dominique da lontano con un binocolo, mentre lei gli fa dei segnali dalla finestra della sua cella, da una distanza ormai incolmabile.