SPECIALE KIESLOWSKI#5

Il DecalogoIntroduzione

di Letizia Piredda

Alla domanda “Crede in Dio?” Kieslowski risponde: “non sono credente ma ho un rapporto con lui“.

“Le risposte non ci sono, non sono mai esistite. Per questo le domande sono interessanti, perché non ci sono risposte”, Kieslowski in un’ intervista televisiva, 1995

L’idea del decalogo nacque quando Piesiewich, il suo collaboratore, vide al Museo Nazionale di Varsavia un dipinto polacco del XIV sec. raffigurante le Tavole della legge: una grande tavola lignea divisa in 10 parti, in ognuna una scena della vita quotidiana aveva il compito di illustrare i comandamenti.
Il dato sorprendente che colpì Piesiewich fu la libertà espressiva dell’artista con cui forniva il ritratto della propria epoca riuscendo a fondere la primarietà dei precetti religiosi con la normalità degli eventi rappresentati, descrivendo la crisi dell’uomo di fronte alla Legge in modo lontano dall’enfasi del rapporto tra uomo e Dio.
Lo schema del decalogo riflette quello del polittico trecentesco descritto da Piesiewich, sostituito da un grande condominio periferico di recente costruzione nel quartiere  Stowki di Varsavia che fa da cornice a dieci storie di vita quotidiana, ognuna contrassegnata dal numero del comandamento corrispondente: ma il rapporto con il precetto biblico spesso è solo tangenziale, allusivo, riposto tra le pieghe della coscienza individuale dei personaggi piuttosto che nella dinamica esplicita degli eventi.
“Quel che mi affascina dei comandamenti è che tutti siamo d’accordo sul fatto che sono giusti, ma al tempo stesso li violiamo ogni giorno. Mi interessano perché mi consentono di indagare sulla doppiezza dell’uomo”. Kieslowski si chiede cosa sia veramente morale per un uomo: aderire a un’istanza etica esterna, sentita come ingiusta, o al contrario tradire l’istanza etica per restare fedele a ciò che sente, a costo di essere ingiusto?
L’interesse di Kieslowski per il decalogo è quello di contrapporre ai comandamenti così semplici e univoci, le situazioni confuse, contraddittorie e opprimenti di cui è costituita la nostra vita.

Oltre al suo essere aperto all’evento c’è un altro elemento fondante e basilare nella concezione dell’umanità di Kieslowski, quello che lui chiama vivere con attenzione.
E’ una sorta di sensibilità profonda, di insight che riguarda noi stessi e gli altri: la vera responsabilità che si identifica in una consapevolezza accorta e lungimirante, ma non passiva, della dimensione corale dell’esistenza.
E poi c’è la concezione del caso: tutto ciò che ci accade è frutto di un groviglio di cui facciamo parte. Le radici non sono soltanto individuali, ma si intrecciano con quelle di tutti. Ed è questo groviglio di cui facciamo parte che costituisce il caso nell’accezione di Kieslowski. L’intreccio inestricabile tra destino caso e volontà è quello che determina tra tutte le storie possibili quella che si trasforma in realtà.
I problemi veri sono dentro di noi. Ciò che conta non è comportarsi bene o male , ma il non sapere cosa fare, perché tutti i criteri di giudizio vengono meno e ogni scelta che compiamo ogni giorno è dettata dal male minore. Ciò che conta è lo smarrimento dell’uomo di fronte alle situazioni che deve affrontare, l’accettazione dell’imperfezione inevitabile delle sue scelte: non l’attaccarsi ai comandamenti e quindi a Dio, come a un salvagente che ci fornisce magicamente  la soluzione.

In sintesi:
-una visione laica dei comandamenti
-un ribaltamento della tendenza comune ai credenti di spostare su Dio responsabilità e scelte che vanno
fatte in prima persona.
In quasi tutti gli episodi del Decalogo è presente un personaggio che non parla mai ma che assiste impassibile allo svolgimento delle vicende: è il testimone silenzioso che compare proprio nel momento fatidico per ogni personaggio, cioè poco prima della scelta. Ci sono diverse interpretazioni sul significato della sua presenza: la più convincente a nostro avviso è quella secondo cui rappresenta la pietas che è poi l’atteggiamento di Kieslowski nei confronti degli errori umani.
A Kieslowski non interessa se la scelta è giusta o sbagliata, gli interessa come  la persona arriva a quella scelta, se si assume la responsabilità della scelta o la sposta su qualcun altro. Cosa elabora sul piano personale, cosa interiorizza o se resta una scelta esteriore.
Tutti gli episodi si concludono con un finale aperto: Kieslowski privilegia l’instabilità , non ci sono risposte definitive.

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Decalogo 1. Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio al di fuori di me

di Pino Moroni

L’inaridimento dei valori e dei sentimenti umani, accompagnato dalla vertiginosa ‘incomprensibile’ crescita tecnologica, come portato dell’uso delle macchine, che vanno a sostituire gradualmente i ragionamenti dell’uomo (ed anche parti più o meno importanti dell’uomo e del mondo naturale) favoriscono l’emergere di  un nichilismo universale in cui tendiamo a disumanizzarci.
Nel 1988, Kieslowski, agli albori di questo nuovo modo di misurare i valori e sentimenti dell’umanità e del suo vivere senza fondamenti, ha voluto, usando il metro di un capolavoro assoluto, mettere un punto fermo su quello che stava avvenendo e sarebbe arrivato, usando altrettante parabole ed apologhi, quanti erano all’origine dell’etica umana i dieci comandamenti. Racconti morali tra materialismo e scienza e trascendentale spiritualità.
Inserendo in ogni storia intellettuale e laica un ‘amore-comprensione’ soprannaturale, quasi una ‘pietas’ divina di fronte alle tragedie e dolori di tutti gli uomini. Un ‘testimone silenzioso’ che compare in quasi tutte le storie e partecipa con profondo sentimento mistico, senza che lo si avverta, agli avvenimenti determinati dal caso fortuito, aggravati dal presuntuoso libero arbitrio degli uomini.
La domanda da porsi non è ovvia: che cosa avrebbe detto cinematograficamente, oggi Kieslowski, alla luce della sempre più cogente evoluzione drammatica del vivere umano (guerre, omicidi, prevaricazione, cattiveria e soprattutto indifferenza personale e sociale di fronte a ‘l’avvenire’), priva di coinvolgimento, esorcizzando e dimenticando tutto da un minuto all’altro e con una ormai prevalente ‘visione superficiale’ del male, tradotta nei film solo con la valenza del linguaggio, senza più alcun contenuto?
Si è perduta quella forza presente ed immanente del Decalogo di trasformare le idee, le sceneggiature non solo in immagini filmiche, ma soprattutto in profonde emozioni. Quando il lavoro del regista è fatto più di immagini digitali, montaggio, effetti speciali, postproduzione, rimane poco da dire dal di dentro.
Una introduzione che anticipa le tematiche del Decalogo 1 (Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altro Dio all’infuori di me). Dio è l’ultimo degli esseri viventi, qui un reietto emarginato, quello che non sa se riuscirà a mangiare qualcosa e se, malgrado il fuoco sulla neve d’inverno, riuscirà a non morire assiderato come ‘un povero cane’. E già questa è un’idea della morte ‘immanente’ per tutti, che pensiamo non accadrà mai a noi, ma sempre agli altri. Come avverrà ad un padre, pieno della sua sicurezza, che basa solo sulla tecnologia nei confronti di un caso fortuito nel quale incapperà, negandolo fino in fondo, proprio lui.
In un grande, freddo, angoscioso complesso popolare, fatto di palazzoni della periferia di Varsavia, quali tanti nidi di animali sconosciuti, vivono ognuno nel proprio appartamento, ‘umani monadi’, con rari casi di rapporti, ognuno con la propria storia, in un inverno gelato senza fine.

Un uomo dal nome Krzysztof in quel luogo prepara e subisce la sua vita. Pieno di sé e del suo sapere, con i suoi piccoli desideri, la sua vita mediocre, quasi insignificante, solo con il suo ‘Credo’ scientifico e con un figlio di 11 anni. I rapporti sociali superficiali, determinati dalla vita quotidiana, dalle parentele strette, dai clusters di lavoro, dalla scuola e dai bisogni alimentari.
Ma il professor Krzysztof ed il figlio Pawel hanno il loro ‘dio tecnologico’ che li guida e li soddisfa. Il computer segnala spesso che è pronto (I am ready). Pronto per aiutarli nelle loro necessità di sapere, di vincere quella battaglia della conoscenza per il progresso che l’homo sapiens ha sempre perseguito. I due uomini, amanti della tecnologia, accompagnati dalla sorella di Krzysztof, Irena, donna sensibile e religiosa, si chiederanno ognuno alla sua maniera, il significato del vivere e del morire. E, fino oltre ogni speculazione mentale, anche a provare la sensazione della morte.
Purtroppo sulla base di informazioni metereologiche e calcoli informatici effettuati da Krzysztof il ghiaccio del fiume non dovrebbe rompersi. La fiducia che il ghiaccio non si romperà, come dice il computer, deriva dalle previsioni metereologiche, che non sono scienza assoluta ma probabilità. Il papà di Pawel è un linguista, non un vero scienziato ed interpreta i dati in maniera fideistica. Ma probabilità non è certezza! Pawel andrà a pattinare e tutto si trasformerà in tragedia.
La prima lunga parte della storia, lenta, tranquilla, su binari predeterminati risulta piena di dettagli, di notazioni minime, quasi inutili ed invece importanti. Un mondo fermo ma aperto all’evento, in cui bisognerebbe fare attenzione ai piccoli avvenimenti composti di indizi nascosti, casuali, in attesa di scelte dell’intelligenza e determinazione dell’uomo, ma poi nelle mani di un caso che approfitta degli errori umani.
Perché per Kieslowski la vita è fatta di libero arbitrio e di caso fortuito. E’ l’uomo che deve contemperare queste due forze come per gli attrattori di Lorenz (teoria del caos), per cui ad ogni piccola differenza delle condizioni iniziali possono venir fuori due traiettorie molto diverse, da un punto fermo iniziale ad un comportamento caotico della vita. E questa è anche la teoria di tutto il cinema di Kieslowskij. La realtà è questa, non come vorrebbe l’umanità, che tutto fosse lineare nel pensiero e nelle sue azioni.
Kieslowski, laico credente in perenne conflitto, da cui trae la forza per tramutare i suoi pensieri, sapeva di essere speciale (vedi il suo capolavoro assoluto “Decalogo”) e il ‘testimone silenzioso’ oltre ad essere una presenza superiore potrebbe bene essere un suo alter ego, che vorrebbe rivelare agli altri la sua morale (che nasce dai “Comandamenti”) ma inascoltato per la in-finita incomunicabilità umana (vedi Bergman, Antonioni, Hitchcook, Kubrick) può provare solo pietà per chi cade.
Vita e morte, scienza e fede, visione materialistica e dimensione trascendente: misteri della condizione umana tra tecnologia e metafisica. Le storie del “Decalogo” sono piene di incertezze, la vita stessa è un caso. Quanto è attuale Kieslowski!

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Decalogo 2.  Non nominare il nome di Dio invano

di Letizia Piredda

Crisi, dal greco, vuol dire scelta, decisione. Ogni volta che dobbiamo prendere una decisione di  vitale importanza, non possiamo non entrare in crisi. Come Dorota. Il marito Andrzey ha un tumore in fase avanzata e lei, che non poteva avere figli, è rimasta incinta dell’amante, un collega della filarmonica. Se il marito muore terrà il bambino, e ricomincerà una nuova vita con l’amante, se invece il marito riesce a sopravvivere, abortirà. Decisione molto complessa, certo, un dubbio lacerante, straziante. Dorota costringe il primario che segue Andrzey a dargli un appuntamento: lei deve sapere con certezza se il marito vivrà o no. Anche qui si fa appello a quel “credo” scientifico dell’episodio precedente, il cui  depositario in questo caso è il primario. Anche qui si vuole operare una scelta basata su una realtà certa. Dorota, è divorata dal dubbio, e questo è comprensibile, ci sono in ballo due vite umane, e la scelta di quale vita salvare è per forza di cose un compito disumano. D’altra parte Dorota non riesce ad operare una scelta perché non accetta  l’imperfezione e l’incertezza che ne deriva e sposta tutto il rischio della decisione e tutta la responsabilità, sul primario, considerandolo alla stregua di Dio.

Il primario inizialmente dà una risposta su un piano di realtà, sono pochissime le probabilità di sopravvivenza del marito; ma successivamente quando capisce che Dorota è decisa ad abortire, le dice, mentendo, che il marito sta migliorando e che vivrà.
Magnifica e ormai iconica l’immagine dell’ape che, rimasta intrappolata nella melma zuccherosa di un bicchiere, dopo numerosi tentativi per risalire aggrappandosi al cucchiaino, riesce a salvarsi. Immagine che anticipa la ripresa di  Andrzey  attraverso la sua lotta contro la morte.
Il finale, al contrario di Decalogo 1, è sereno, ma Dorota non ha saputo affrontare la crisi, non ha vissuto il rischio, la disperazione dovuta ad una sua scelta, per forza imperfetta, per forza basata non su certezze ma su probabilità. E che peso avrà tutto questo, come cambierà la dinamica dei rapporti familiari e come inciderà sul suo percorso di vita?
La scienza per due volte è fallace: una volta il ghiaccio doveva reggere e invece è franato, il marito di Dorota doveva morire ed è sopravvissuto. La scienza non può niente di fronte all’irrazionalità della vita, di fronte al disegno imperscrutabile del destino e del caso. Sono la somma delle nostre scelte, le reazioni che provochiamo  negli altri, la nostra volontà o la nostra decisione di demandare ad altri a determinare tra tutte le storie possibili, quella che si trasformerà in realtà.

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Decalogo 4. Onora il padre e la madre

di Giulia Pugliese

C’è molta letteratura sul Decalogo, ma io ero interessato ad un approccio completamente diverso (…) a un’interpretazione scientifica, l’idea è che ogni comandamento è una sfida per l’uomo. Può l’uomo affrontare questa sfida? L’umanità ha la capacità di fare questo? (…) La vita moderna è più complicata e rispettare i comandamenti è quasi impossibile.” Krzysztof Kieslowski

La protagonista dell’episodio, Anka, che vive con suo padre, trova una lettera con scritto “aprire solo dopo la mia morte”. La lettera è l’elemento di apertura all’evento del film e porterà Anka a compiere delle scelte, innescando mille dubbi e domande. Questa lettera diventa una sorta di ossessione per la protagonista, che se la ritrova sempre tra le mani, desiderosa di avere risposte. Kieslowski mette in scena il dubbio della ragazza in una casa vuota e buia, con un solo enorme punto luce, dove lei tenta di spiare il contenuto della lettera. Anka si troverà ad aprire la lettera, senza però riuscire a leggere il contenuto, sotto lo sguardo dell’osservatore misterioso, e tra loro ci sarà uno scambio di sguardi rivelatore che porterà la giovane a vergognarsi del suo atto e a non aprire completamente la lettera. In questo episodio, l’osservatore con il suo sguardo blocca Anka, quindi in qualche modo interagisce con la storia. Continuiamo a seguire Anka nelle lezioni all’accademia e nella sua vita quotidiana. Abbiamo tanti indizi che ci farebbero capire com’è la situazione e cosa turba così tanto la ragazza (ad esempio, la scena recitata male con un ragazzo giovane, poi riuscita con il suo insegnante di recitazione, molto più vecchio di lei), ma non li cogliamo, perché il capitolo 4, “Onora il padre e la madre”, è una scatola cinese dove lo spettatore non riuscirà mai a farsi le domande giuste, perché ancora non ha gli indizi per risolvere il giallo.
In questo episodio ci sono vari elementi simbolici: i problemi di vista di Anka rappresentano una cecità verso qualcosa che è sempre stato lì, un sospetto che però non era mai stato messo a fuoco; la creazione di un artificio, una recita. Infatti, Anka vuole diventare attrice e studia all’accademia di arti drammatiche. Nell’episodio c’è un continuo richiamo a cosa è falso e cosa è vero, al non detto, alle bugie dette di proposito (“è stata la corrente” dice Michal per la rottura della porta che ha provocato lui stesso, e infatti la ragazza non gli crede), o nascoste anche a se stessi. Anka è spinta a compiere le sue azioni, quindi si presta alla recita che dirige Michal: lui ricorda tutto, monitora la ragazza da sempre, orchestra la sua vita con le sue fughe. Lei, in un momento, dice della lettera: “l’ho letta perché volevi che lo facessi”. Il recitare la lettera al padre fa sì che ci sia uno scoppio di violenza, una rottura di armonia, rappresentata dalla rottura/apertura della porta da parte di Michal. Qualcosa si è rotto tra i due e cambierà per sempre la loro vita (“semplice come una maledizione”, dirà Anka). La porta si rompe e parallelamente la ragazza sbatte la portiera del taxi. Il caso li farà incontrare nell’ascensore e riappacificarsi con un abbraccio, ma l’entrata di un vicino (tra l’altro, il primario del secondo episodio) li farà quasi vergognare di quell’abbraccio.

Attraverso il gioco della candela si manifesta il caso (“due candele, una è mia, una è tua, quello a cui si spegne prima, ha diritto a fare una domanda”), e Anka stessa parlerà dei reali sentimenti che ha per il padre, portando lo spettatore in una zona di fastidio. Quando Anka gli si propone, Michal la rifiuta (rappresentato dal momento in cui Michal la copre come farebbe un padre e non un amante). È lo stesso Kieslowski che ci dice come dobbiamo interpretare questa scena: “La ragazza non sa se suo padre è suo padre. Se l’uomo che ama è suo padre. Può infrangere questo tabù ed essere lo stesso felice? Può la sua felicità essere oscurata da un tabù?”.
La mattina dopo, Anka torna a chiamarlo “papà”, “papino”, dice alla luce del sole. I due decidono che per riportare tutto alla normalità bisogna far finta che la lettera non sia mai esistita. “Allora bruciamola e fingiamo o diciamo che non l’abbiamo mai letta” (ma è proprio Michal che la sera prima aveva detto “puoi partire, puoi sposarti, le cose non cambiano” o “il passato non torna indietro”). Il bruciare la lettera diventa una sorta di rituale che va a rinsaldare il loro rapporto padre-figlia, per respingere l’oscurità dei discorsi fatti la sera precedente. Indipendentemente da cosa ci sia scritto nella lettera, Anka e Michal scelgono di essere padre e figlia, l’uno per l’altra, allineandosi alla morale comune e non infrangendo il tabù.
Crediamo alla storia di Anka? Crediamo a Michal, che non ha mai letto la lettera? Decide lo spettatore a cosa credere e a cosa non credere. La domanda che rimane in testa, e che Kieslowski e Piesiewicz volevano che ci rimanesse, è: Anka e Michal riusciranno a ritornare a essere padre e figlia o si abbandoneranno ai loro istinti amorosi?

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Decalogo 5 Non uccidere

di Martina Cossia Castiglioni

Decalogo 5, nucleo centrale dell’opera – che nella sua versione ampliata (Breve film sull’uccidere, Premio Speciale della Giuria a Cannes 1988) ha permesso con Breve film sull’amore la realizzazione dell’intero progetto – è la storia di tre personaggi le cui vite sono destinate a incrociarsi drammaticamente. Piotr, novello avvocato, del quale sentiamo dapprincipio solo la voce fuori campo (mentre scorrono i titoli di testa della pellicola) nel giorno della discussione finale per l’ammissione all’ordine degli avvocati. Un tassista, che abita nel condominio che fa da sfondo a tutti gli episodi del Decalogo e Jacek, un giovane che vediamo vagabondare per le vie di Varsavia.
Attraverso un rapido montaggio alternato, il regista passa dall’uno all’altro dei personaggi. Mentre Piotr espone le sue idee contro la pena capitale, Jacek in un bagno pubblico spinge per terra un giovane, poi getta una pietra da un cavalcavia. Il tassista, dal canto suo, sceglie arbitrariamente quali clienti accettare sul suo taxi: se ne va senza caricare Dorota e il marito (protagonisti di Decalogo 2) che stavano aspettando che lui finisse di lavare l’auto, e in seguito si rifiuta di prendere a bordo un ubriaco.
A salire sul suo taxi, in città, sarà Jacek, e il loro incontro terminerà con un terribile, insensato omicidio. Dopo averlo fatto svoltare in una strada sterrata, il ragazzo cerca di strangolarlo con una corda. Il tassista oppone una strenua resistenza, Jacek lo colpisce con una sbarra di ferro poi, dopo averne trascinato il corpo lungo la riva del fiume, lo finisce con una pietra.


Non c’è alcun compiacimento nella rappresentazione della violenza, in questa scena. Uccidere è faticoso, brutale e non ha giustificazioni.   
Allo stesso modo, assurda e crudele è l’esecuzione di Jacek, nella parte finale del film (Piotr, il suo avvocato, ha perso la causa). Non c’è differenza tra l’efferato omicidio del tassista e la distorta concezione della giustizia con la quale lo Stato punisce un delitto commettendone un altro.
Poco prima dell’esecuzione osserviamo il boia controllare il cappio, regolarne l’altezza, quasi a saggiarne la solidità, come nella prima parte della pellicola avevamo visto Jacek arrotolare e stringere spasmodicamente intorno alle dita la corda che avrebbe poi usato per strangolare la sua vittima.
All’estenuante lotta del tassista contro la morte, fa da contrappunto il tentativo del giovane di ribellarsi alla stretta dei secondini, che lo trasportano letteralmente di peso verso la forca. E la telecamera, che all’inizio della sequenza dell’omicidio si era soffermata sul dettaglio dei piedi del tassista, al termine dell’esecuzione inquadra per qualche istante i piedi di Jacek, ancora appeso al cappio.  
Le storture di un mondo in cui la pena è una forma di vendetta (per usare le parole di Piotr, «specialmente se mira ad arrecare il male e non a prevenire il delitto»), sono rappresentate
in Decalogo 5 anche da alcune scelte formali.
Ci sono, nella pellicola, molte superfici riflettenti che modificano, almeno in parte, la percezione dello spettatore: specchi, specchietti, vetrate. È in uno specchio che all’inizio ci appare Piotr; nel vetro del portone dal quale esce il tassista il giorno del delitto, invece, si riflette, come raddoppiata, l’immagine dei palazzoni del quartiere di Stowski; anche Jacek è «doppio» quando lo vediamo per la prima volta: in piedi, di spalle, legge qualcosa in una bacheca, mentre il suo volto è riflesso nel vetro.
In una delle sequenze iniziali il tassista, che vuole lavare l’auto, esamina il parabrezza. La telecamera è all’interno del taxi, ed è come se anche noi spettatori, che abbiamo lo stesso punto di vista, fossimo dentro l’automobile. Il tassista ci guarda e noi guardiamo lui. Siamo costretti in uno spazio ristretto, quasi a prefigurare il destino dell’uomo, che da quella macchina non uscirà più, se non da morto.
La luce verde/giallastra che avvolge ogni cosa (un effetto che il direttore della fotografia Slawomir Idziak ha ottenuto con l’uso di filtri) accentua la sensazione di una realtà nebbiosa e opprimente. C’è anche molto «nero», in Decalogo 5. I personaggi sono spesso in ombra o talvolta sembrano emergere dall’oscurità, forse a suggerire (come lo specchio) l’idea della duplicità della natura umana, fatta di Bene e di Male. Tutti questi elementi tolgono spazio e respiro allo spettatore, che si sente soffocare, come il tassista, e come Jacek sulla forca.

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Decalogo 6. Non commettere atti impuri

di Giulia Pugliese

“Ho smesso di guardarla” Tomek a Madga

Il capitolo 6 del Decalogo di Kieslowski, intitolato “Non commettere atti impuri”, è uno degli episodi più affascinanti e disturbanti della serie, soprattutto per la sua esplorazione del desiderio, dell’ossessione e dello sguardo. Lo spettatore diventa un voyeur, partecipando all’ossessione di Tomek, un giovane ragazzo che spia ogni sera una donna più matura, Magda, attraverso il telescopio, convinto di esserne innamorato.
Tomek, nella sua ingenuità, trova un modo per avvicinarsi a lei, falsificando un avviso di pagamento per costringerla a recarsi in posta, dove lui lavora. Qui, dopo essere stata umiliata dalla direttrice, Tomek si dichiara, ma viene respinto brutalmente. Nonostante il rifiuto, Magda non interrompe il gioco; anzi, sembra quasi divertirsi a essere oggetto di osservazione, portando avanti una dinamica di attrazione e repulsione, un continuo avvicinamento e allontanamento tra i due.
L’appuntamento tra Tomek e Magda segna una svolta significativa. Magda, apparentemente fredda e distaccata, mette in gioco il caso per determinare il destino della serata: “Se riusciamo a prendere l’autobus, sali a casa mia; altrimenti, niente”. Le porte dell’autobus sembrano chiudersi, ma poi si riaprono, portando i due a casa di Magda, dove Tomek verrà ulteriormente umiliato. L’intera scena, osservata dalla proprietaria di casa di Tomek, crea un senso di disagio profondo, spingendo lo spettatore a sentirsi come un guardone, invadendo l’intimità del giovane protagonista.
Magda umilia Tomek intenzionalmente, con l’obiettivo di allontanarlo, ma non immagina che questo porterà il ragazzo al tentativo estremo di suicidio. Sentendosi in colpa, Magda inizia a cercarlo, assumendo il ruolo che Tomek aveva avuto nei suoi confronti, invertendo i ruoli. Ora è Magda che spia Tomek e cerca di contattarlo, ma ormai è troppo tardi. La proprietaria di casa di Tomek, come un investigatore di un film noir mette insieme i pezzi e rivela a Magda che il ragazzo si è suicidato. Da qui, Tomek smette di essere il ragazzo che spia dalle finestre e diventa una sorta di eroe romantico, trasformato da vittima di un amore non corrisposto in oggetto del desiderio di Magda, che però ora non viene più ricambiata.

L’episodio 6 è forse il più hitchcockiano di tutto il Decalogo, non solo per l’omaggio a La finestra sul cortile, ma anche per la presenza di un desiderio perverso e ossessivo, che richiama il cinema del maestro del brivido. L’intero episodio ruota attorno allo sguardo, sia quello di Tomek che quello di Magda. Tomek vede in Magda una donna da salvare, idealizzata, mentre Magda vede in Tomek un giovane da “curare” dalla sua ingenua concezione dell’amore, prima che il mondo lo faccia soffrire. Tuttavia, Magda, da potenziale salvatrice, si trasforma in carnefice, e sarà poi lei a sentirsi distrutta per aver reso Tomek simile a lei, cinico e disilluso.
Questo episodio può essere visto come un coming-of-age oscuro e distorto, in cui Tomek, con poca esperienza di vita, attraversa una dolorosa trasformazione. La sua sensibilità, espressa in modo sbagliato e mal interpretato, lo porta a un percorso di sofferenza, dal quale emerge ferito e indurito.
La casa di Magda, come in un palcoscenico, diventa il luogo di osservazione e controllo: Tomek spia e orchestra la vita di Magda, fino a quando è lei a ribaltare i ruoli e a orchestrare la punizione di Tomek, facendolo picchiare dal suo amico. Questo ribaltamento dei ruoli è costante lungo tutto l’episodio, rendendo ancora più complesso il rapporto tra i due protagonisti.
Il nome di Magda, rivelato essere Maddalena durante una telefonata, richiama la figura biblica di Maria Maddalena, la prostituta redenta dall’amore di Gesù. Anche Magda sembra attraversare una sorta di redenzione, soprattutto quando, alla fine, cerca Tomek per riconciliarsi con lui. Tuttavia, la conclusione dell’episodio, a differenza di altri capitoli del Decalogo, non è aperta, ma chiara e definitiva, con Tomek che smette di desiderarla.
Kieslowski lascia allo spettatore il dubbio morale: due persone come Magda e
Tomek, che compiono atti impuri e contrari alla morale, sono davvero cattive e moralmente deplorevoli? O i loro comportamenti non rappresentano del tutto chi sono realmente, lasciando aperta la possibilità di una redenzione reciproca? Nonostante queste domande, l’episodio offre una conclusione netta: Tomek e Magda sono intrappolati nel loro dolore e nelle loro ossessioni, incapaci di trovare la felicità o una via d’uscita.

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Decalogo 8. Non dire falsa testimonianza

di Martina Cossia Castiglioni

In un grigio paesaggio invernale, un uomo e una bambina camminano tenendosi per mano. Nel silenzio della strada si sente solo il rumore dei loro passi. Per un attimo vediamo il volto della bambina, poi di colpo l’atmosfera cambia.
Ora c’è il sole, e una donna non più giovane fa esercizio e corre tra gli alberi di un parco. Nella sequenza successiva la rivediamo con un mazzo di fiori freschi, alle sue spalle i palazzoni del condominio del quartiere di Stowski; incrocia un vicino con il quale si ferma a parlare; ritira la posta, entra nel suo appartamento, sistema i fiori in un vaso e mette sul fornello l’acqua per il tè. In questa placida quotidianità, fatta di piccoli gesti e consolidate abitudini, un solo dettaglio fuori posto: un quadro storto sulla parete, che la donna cerca inutilmente di raddrizzare.
C’è infatti un’ombra nell’esistenza ordinata di Zofia, la professoressa di filosofia protagonista di Decalogo 8: una scelta fatta in passato che ha coinvolto altre persone, una delle quali tornerà nella sua vita.      
Elzbieta Lorenz, la traduttrice americana dei suoi libri, chiede al preside di assistere alle lezioni. In aula una studentessa espone il dramma etico di Dorota, la protagonista di Decalogo 2. Quando Zofia ammette di conoscere la storia, di sapere che il bambino vive e che è lui la cosa più importante, Elzbieta chiede la parola per raccontare una vicenda lontana nel tempo, «una storia vera».
Nell’inverno del 1943, a Varsavia, una bimba ebrea di 6 anni viene accompagnata nella casa di una coppia cattolica, disposta a tenerla a battesimo per salvarla dalla deportazione. All’ultimo momento i due cambiano idea: la moglie afferma di non poter mentire di fronte al Dio in cui lei e il marito credono.
Zofia capisce che Elzbieta è la bambina del racconto, perché è proprio lei la donna che all’epoca si era rifiutata di aiutarla. Le rivela che suo marito era allora un ufficiale della resistenza, e poiché la famiglia alla quale avrebbero dovuto affidarla era complice dei nazisti, per timore che la loro cellula venisse smantellata, lui e la moglie avevano mentito a Elzbieta e all’uomo che l’aveva portata da loro.

Una scelta crudele fatta in nome di una causa più «alta», il sacrificio del singolo per la salvezza di molti. Solo in seguito avevano scoperto che la presunta connivenza di quella famiglia col nemico, era essa stessa una falsità.
Al termine del loro confronto, Zofia ammette che non esiste causa più importante della vita di un bambino. Non si può più tornare indietro, come quel quadro sbilenco che rimane storto nonostante Elzbieta provi a sua volta a raddrizzarlo. Eppure, le due donne si riconciliano, commosse. Elzbieta desidera incontrare il sarto che avrebbe potuto crescerla se non fosse stato accusato ingiustamente. Ma l’uomo si rifiuta di parlare con lei di ciò che è accaduto durante e dopo la guerra.
Torna, in Decalogo 8, uno dei temi portanti dell’intero progetto: quello del libero arbitrio. Davvero Zofia non avrebbe potuto agire altrimenti? L’essere umano è libero di scegliere, e le ragioni che l’hanno spinta ad agire così in passato sono meno “importanti” del peso che poi quella scelta ha avuto sulla sua vita.
Per anni Zofia si è interrogata con angoscia sulla sorte della bambina, e nella sequenza in cui perde l’Elzbieta adulta e si perde lei stessa nell’oscurità del palazzo in cui si sono conosciute nel 1943, rivive quel tormento.   
C’è poi l’idea, espressa da Zofia, che il condominio in cui vive (e dove abitano anche Dorota, il marito e il medico che l’aveva in cura) sia un microcosmo che riflette la condizione universale dell’essere umano. A Varsavia, come altrove, in ogni palazzo, in ogni appartamento, ci sono persone che prendono decisioni, influenzano e sono a loro volta influenzati dalle scelte altrui. Caso, necessità e libero arbitrio si intrecciano.
La telecamera si sofferma spesso sui volti dei personaggi, quasi a sondarne l’anima. Sono molti, qui, gli intensi primi piani delle due donne.
Il gioco delle luci e delle ombre rispecchia il contrasto tra l’oscurità di un passato dominato dalla paura e dalle sofferenze della guerra, e un presente più limpido, come nelle scene nel parco.
Il testimone silenzioso è uno degli studenti che assistono alle lezioni. A un certo punto guarda verso la telecamera. Sta guardando Zofia oppure noi? Egli non interviene e non giudica, eppure sembra chiederci: come avreste agito voi nella stessa situazione?

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Decalogo 9. Non desiderare la donna d’altri

di Letizia Piredda

Toglie il fiato questo episodio: dall’inizio alla fine una tensione spasmodica ci attanaglia lasciandoci fino all’ultimo sospesi sul finale.
Roman, un chirurgo e Anka, sono una coppia sposata da diversi anni. Vediamo Roman in ospedale che parla con i pazienti, in particolare con una ragazza cardiopatica, una bravissima cantante lirica, che se non si opera rischia la vita.  Ma nella vita privata Roman ha un problema che lo affligge: decide di andare da un suo collega che, dopo vari controlli medici, gli conferma la diagnosi di una totale impotenza sessuale. Quando Roman lo comunica ad Anka lei non si scompone e minimizza il problema: “Ti amo per quello che c’è tra noi, non per quello che non c’è”. Colori scuri, dimezzamento dello schermo, l’uso dello slit staging (la messa in scena della fessura) sono le scelte stilistiche che Kieslowski fa per trasmetterci lo stato d’ansia, di oppressione e di disperazione di fronte a questa sua menomazione. Ma poi alcune telefonate cominciano a insospettirlo: la moglie ha un amante. La doppiezza è l’elemento che prevale e che diventa emblematico nella scena dello sdoppiamento allo specchio, quando rivede la moglie.

Ma chi è che desidera la donna d’altri? Mariusz che desidera una donna sposata o Roman che desidera sua moglie, ma che sul piano fisico non sente più sua? La moglie chiude definitivamente con Mariusz, l’amante. Ma Roman resta sempre col dubbio e decide di farla finita, dopo aver scritto una lettera d’addio alla moglie. Si getta con la bicicletta  in acqua, ma è poco profonda: Kieslowski sembra volerlo rendere  impotente anche nel tentativo di suicidio.  Con questo gesto Roman ha sperimentato l’irreversibile e questo lo aiuta a guardare con nuovi occhi il suo rapporto con la moglie: insieme decidono di adottare una bambina e iniziare un percorso nuovo.
Se Decalogo 8 è l’episodio che sintetizza di più lo spirito dell’intero progetto, Decalogo 9 è quello più completo sul piano formale: numerosissimi i riferimenti a quella che sarà l’opera futura di Kieslowski: la cantante lirica cardiopatica che Roman opera, da cui avrà origine La doppia vita di Veronica, l’impotenza che ritroviamo in Film bianco, il tentativo di suicidio come in Film Blu, l’intercettazione telefonica che ritroviamo in Film Rosso. Una scacchiera di collegamenti che forma una specie di matrice progettuale su cui vanno a innestarsi man mano i suoi prossimi film.

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