Venezia 81: l’incontro con Tilda Swinton. Do not look away.

di Lorenza Del Tosto

Approdiamo all’Isola delle Rose, a venti minuti in barca da San Marco, attraversiamo viali e aiuole fiorite, immersi nel sole e nel silenzio, saliamo una rampa di scale, apriamo una porta e ci sediamo ad aspettare. Come sarà da vicino? Di quale sostanza impalpabile è fatta?
Ne rivediamo la grazia e l’irraggiungibile distanza mentre sfila, prima della proiezione ufficiale de La Stanza Accanto alla Mostra del Cinema di Venezia, in un abito elegantissimo e sobrio. Veleggia sfiorando
il tappeto rosso, mentre, attorno a lei, noi umani siamo creature che poggiano pesanti sulla terra.
Un archetipo, un emissario del cielo che, con una zazzera di capelli corti e il viso affilato, in Conferenza Stampa, avvolge il pubblico dei giornalisti in un’onda di cultura e profonda leggerezza, nel suo meraviglioso inglese britannico.

La guardavamo e pensavamo: ecco così era il mondo prima di venire corrotto. Prima che Eva mangiasse la fatidica mela, ormai un po’ obsoleta, o prima che il capitalismo ci mangiasse il cervello e gettasse una rete sulle nostre ali. Su quel vento di libertà che soffiava in Europa negli anni ‘80 e che è il vincolo sotterraneo e fortissimo che lega Tilda Swinton a Pedro Almodóvar, il regista del film. Un legame di anime, una contentezza negli occhi di Almodóvar.

“Quando abbiamo scoperto il lavoro di Pedro, io lavoravo con Derek Jarman a Londra, erano gli anni ‘80 e abbiamo capito che in Spagna viveva un’anima affine a noi. Ci colpiva la sua sensibilità, quel suo mettere le donne sempre al centro. Per noi era fonte di ispirazione, anche se all’epoca non era facile procurarsi i suoi film.”
Sono passati decenni prima che potessero lavorare insieme. La prova generale de La voce umana e poi La Stanza Accanto. Un film sul morire che è un inno alla vita. Un applauso smisurato di 17 minuti alla fine della proiezione ufficiale. “Solo la prima proiezione per il pubblico ti dice che film hai fatto. Te ne accorgi dal respiro in sala.” Ha detto Pedro che, in giacca e pantaloni rosa, si è immerso estasiato nell’abbraccio del pubblico felice come forse non è mai stato. Perché se è vero che, invecchiando, abbiamo bisogno di ritornare alle nostre radici, lui ha ritrovato le sue radici profonde nel cuore stesso della libertà.
Ed ecco Tilda Swinton, l’archetipo della libertà, entra nella stanza come una carezza dell’aria, elegantissima: camicia bianca, pantalone nero con ampi spacchi laterali. Se allunghiamo una mano l’attraverseremo? Toccheremo l’aria? Dobbiamo trattenerci, teniamo al loro posto le mani e ascoltiamo in silenzio le parole che rivolge ai suoi interlocutori estatici e intimoriti.

Julienne Moore e Tilda Swinton ne La stanza accanto

La Stanza Accanto è, per certi versi, una fiaba. Un film sullo stare accanto, sull’accompagnare. Sull’amicizia e ciò che di noi vive negli altri. Un film su come ci raccontiamo le cose. C’è la narrazione sulla morte di  Ingrid che, all’inizio, ha il terrore di fare quanto Martha le chiede e alla fine cambierà profondamente. C’è la narrazione di Michelle: ciò che lei si racconta sulla madre. Nel corso della storia le narrazioni si rovesciano, cambiano. Le protagoniste si trasfondono l’una nell’altra. Come in Persona di Bergman. In questa fiaba ciò che, spesso, è considerato frutto della fantasia: la pace, l’amicizia, l’arte e il rispetto diventa solida realtà. E ciò che si considera realtà: il capitalismo, il genocidio, la guerra appaiono per ciò che realmente sono: frutti distorti dell’immaginazione.“
“Come è stato interpretare Martha?”
Martha è una corrispondente di guerra che, a seguito di una malattia incurabile, decide di mettere fine alla sua vita e chiede all’amica Ingrid (Julianne Moore), con cui ha condiviso i folli anni ‘80 a New York lavorando per la stessa rivista, di accompagnarla nella stanza  accanto .

“È stata una benedizione, una grazia. I dettagli della vita di Martha sono diversi dai miei, ma mi riconosco nel suo spirito e nel suo atteggiamento verso la vita. A prescindere dallo status e dalla condizione sociale, è sempre il modo di affrontare la vita che mi interessa di un personaggio.
Pedro mi ha mandato la sceneggiatura, per e-mail, senza dirmi niente. L’ho letta e poi gli ho chiesto: sono Martha o Ingrid? Sarebbe stato facile essere Ingrid, lo sono stata tante volte nella vita, ma ho sperato di essere Martha.”
“È anche un film sul fine vita. Sul diritto di scegliere…”
L’interlocutore parla in un sussurro. Come se un tono troppo alto potesse far sparire la creatura celestiale che gli siede davanti e sorseggia il suo thè dopo i festeggiamenti della sera prima. Ancora un poco distante, un poco lontana, sfoggia la sua versione battagliera e attivista e racconta dell’evoluzione della legge sul fine vita.
“Mi chiedo in quale momento della storia l’uomo abbia dato le spalle alla morte. Negare la morte è un tale spreco di energie. La società dei consumi lo impone: ci crea illusioni, non vuole che siamo mai sazi. La contemplazione giornaliera della morte, invece, rende la vita molto più preziosa. Negli Stati Uniti solo dieci Stati prevedono la legge sul fine vita, e tra questi non c’è lo stato di New York dove la storia è ambientata… Inoltre è una procedura orribile: ci vuole il consenso di due dottori. Un’attesa di sei mesi. Poi un volontario esterno prepara un cocktail di polveri disgustoso da ingerire.”
Il viso di Tilda si contrae in una smorfia di disgusto.
“Che l’ultimo atto nella vita di una persona sia l’ingestione di una sostanza orribile, la dice lunga.  In Europa le cose vanno solo un poco meglio soprattutto in Germania dove sono attive diverse associazioni per la Morte con Dignità. Ascoltano la tua storia e ti assistono, non è necessario essere malati terminali. Passati i sei mesi preparano la flebo, ed è la persona stessa che l’aziona.”
“E il lavoro con Almodóvar? Cosa vi siete detti durante le riprese?”
“Una volta stabilito il tono del film non c’era molto altro da discutere. Voleva un approccio pratico, privo di qualunque sentimentalismo.  Ci dava al massimo due ciak. Se volevamo il terzo dovevamo implorarlo.” Offre con slancio i dettagli del loro lavoro, ma senza mai entrare nell’intimità dell’amicizia.  È una cosa che c’è e di cui non si parla. Come tutte le cose preziose che abbiamo e che a parlarne si guasterebbero, come ruggine che attacchi il ferro. Si capiscono, si intendono. Una corrente impetuosa e sotterranea, rivestita di pudore.
“Pedro è un grande amante del colore.“  Dice a chi le chiede notizie de La Casa nel Bosco, la magnifica costruzione in mezzo alla natura, il luogo dove le due amiche trascorrono il loro  ultimo tempo insieme.

La Casa nel Bosco, dove è stato girato il film La stanza accanto, di Pedro Almodovar

“È una casa vicino a El Escorial. Il primo giorno l’arredo era nei toni del beige, della natura. Il giorno dopo entriamo…e puf…” Ride quel suo riso contenuto che le accende la pelle candida da scozzese, le illumina lo sguardo azzurro. “Pedro l’aveva trasformata. Era diventata la sua casa, fatta di colori saturi: verde, rosso. Julianne gli ha detto subito: ma in America le case non sono così.  Nessuno abita in una casa così. Ma a lui non importava ovviamente. Il suo amore per il colore riflette il suo atteggiamento verso la vita.”
La Casa del Bosco, con le sue enormi vetrate che affacciano sulla natura, i rossi, i verdi, i gialli, è la casa incantata dove Martha, Ingrid e Pedro convivono con la morte che lentamente si fa luminosa. Un’oasi di pace che le porta il ricordo della sua casa in Scozia.
“Amo moltissimo il posto dove vivo. Scrivere, leggere ed occuparmi dell’orto. Mi costa passare troppo tempo lontano da casa. A volte provo un poco di nostalgia per il Covid, è stato un periodo di pace come quello trascorso ne La Casa del Bosco.“ Confessa in un sussurro, sorpresa lei stessa. Come se la libertà fosse un estenuante esercizio di sottrazione alle infinite sirene.
“Sono stata sei mesi a Madrid per le riprese. In un altro momento non me lo sarei potuta permettere. Ora i miei figli hanno 24 anni, sono andati via e io sono più libera. Ma quando avevano 17 o 18 anni  sono rimasta a casa. Facevo solo piccole cose. I figli non hanno bisogno del glamour di una madre. Tu madre stai a casa e ti prendi la parte noiosa. Solo così dai le ali ai figli per volare via.”
D’un tratto è successo qualcosa. Mentre le conversazioni svelano lentamente l’infinità di strati che il film contiene, uno sull’altro, intrecciati, inestricabili, perché l’atto del morire contiene tutti gli strati del vivere, qualcosa si scioglie in lei, il discorso si fa più personale, ed insieme più universale e profondo. La conversazione entra nella sua vita, nell’analisi della sua esistenza. Come se l’intervista fosse un’occasione di bilanci.
“Una volta qualcuno mi ha detto: il problema è che tu non sei ambiziosa. Io lo sono moltissimo, ma solo per le mie priorità: l’orto, i figli e lavorare con gli amici. Fare arte con un gruppo di amici è sempre stato il massimo per me, la più bella forma di complicità possibile. Mi considero ancora una amateur, una sperimentatrice.”
“Dunque è questo che la motiva nel suo lavoro?”
Si ferma a riflettere.
“Mi motiva la curiosità. Sono curiosa di vedere cosa viene, cosa arriva. La curiosità e la sperimentazione. Ho sempre voluto essere scrittrice, non pensavo che avrei fatto l’attrice. Recitare è il mio modo di scrivere. I pensieri si rincorrono. In fin dei conti, ieri è stata la prima mondiale, queste sono le prime conversazioni sul film e non sempre è possibile prevedere dove porteranno.“Martha, per il suo lavoro, è sempre stata nella stanza accanto. Una testimone rispettosa. Non ha mai distolto lo sguardo, e ha lo stesso atteggiamento verso la morte. Non distogliere lo sguardo Do not look away è il tema al cuore del film.” Esita ” In fin dei conti siamo sempre tutti nella stanza accanto. Testimoni l’uno dell’altro. Testimoni di quanto avviene a Gaza, testimoni di quanto avviene nel mondo. È importante guardare e fare quello che possiamo fare.”
Si accorge di una somiglianza.
“Derek Jarman e Pedro Almodovar entrambi hanno il coraggio di guardare e rendere testimonianza. Hanno l’occhio del basilisco. Adesso capisco…”
D’improvviso nel terso rigore del suo discorso qualcosa si spezza. Un’incrinatura nella sua voce ci coglie di sorpresa, ci obbliga ad abbassare lo sguardo per pudore. Per non vedere le lacrime che sono apparse sui suoi occhi. Ma è solo un istante.
“Derek Jarman è stata la mia Martha. E io sono stata la sua Ingrid.”  Un’intuizione che per un istante la disorienta. L’amore per Derek, l’immensa gratitudine e l’affetto per il Maestro sono in lei palpabili. Se ora allungassimo la mano toccheremo di sicuro l’essenza della nostalgia, dello struggimento, dell’infinita gratitudine.

Tilda e Derek

Oh come vorremmo allungare le dita. Sentirne la forma e la sostanza.
“Derek era un pittore e pertanto conosceva la solitudine dell’artista che lavora da solo. Poi ha iniziato a fare film perché, diceva, lo spirito collettivo era la sua droga. Aveva bisogno degli altri …Per lui la responsabilità di un film era la responsabilità di tutti. ““E l’amore sentimentale?” La interrompono.
Un guizzo le attraversa il viso. Indescrivibile, irripetibile.
Un’ironia, un disincanto, una risata.
“L’amicizia è al cuore del vero amore.”Ne La Stanza Accanto ci sono persone che hanno amato. Che hanno goduto dell’enorme sollievo del sesso. L’eros come mezzo per affrontare la guerra, per vitalizzare l’esistenza. Eros che lascia buoni ricordi e abbracci pieni di calore e risate. Un Eros che è gioia, vita, allegria. Un Eros anni 80. Altro, sull’amore sentimentale, non si dice.
E ancora il tema del rapporto genitori e figli. Madre e figlia.
“Sono felice che Pedro mi abbia dato la possibilità di interpretare anche il ruolo di Michelle. La figlia di Martha. Dove finisce una madre e dove inizia una figlia? È un rapporto su cui mi piace lavorare.  Sia quando è un rapporto impossibile come ne La Stanza Accanto. Sia quando è un rapporto di fusione come in The eternal daughter, presentato a Venezia due anni fa.
C’è una trasfusione. Anche con i miei genitori, ora che non ci sono più, mi chiedo dove finiscono loro e dove inizio io.”  
Anche con Derek è stato così.
“Quando Derek si è ammalato di AIDS…”  La sua voce di nuovo si spezza. “E sapeva che stava morendo, non mi ha risparmiato la verità. Ero giovane e terrorizzata all’idea della morte, proprio come Ingrid. Mi ha detto cosa avrei dovuto fare dopo… io mi sono messa a piangere. Lui mi ha detto: no, te lo impedisco. Mi ha parlato delle tre cose che ci sostengono e su cui dovevo costruire la mia vita. È stato la mia Martha. Mi ha reso la persona che oggi sono. Ora non ho più paura. Mi ha insegnato ad accompagnare, a stare accanto.
Adesso mi è chiaro. Durante le riprese non lo avevo ancora capito. Ma può darsi che io abbia attinto ad una consapevolezza inconscia …”


Non si scherma più dietro la sua cultura, nell’ultimo incontro chiede ai giornalisti di sedersi in mezzo a loro. Di stringersi attorno a lei. Li guarda negli occhi e sorride.
Per un istante sembra di rivedere la ragazza di un tempo affranta dal dolore. Incapace di accettare la perdita. Come se quella ragazza vivesse ancora in lei. Nella nuova Tilda che sfiora la terra perché ha pilastri solidi, invisibili su cui il suo piede poggia.
Forse allora l’archetipo, l’emissario del cielo, è uno scrigno pieno di tesori.
Forse allora è questa la libertà. Essere il frutto dell’amore dato e ricevuto, dell’amicizia che è cresciuta in te e ti ha reso ciò che sei. Essere tutte le persone per cui siamo stati, e saremo sempre, nella stanza accanto.     

Informazioni su Lorenza Del Tosto 28 Articoli
Lorenza Del Tosto Vive a Roma con le sue figlie e il gatto Leo. Interprete di Conferenza free lance. Tra le sue passioni: le serate di chiacchiere con gli amici, il cinema, la letteratura e l’Aikido. Ha una rubrica Lost in Translation con ritratti di attori e registi per cui lavora. Ha vinto un’edizione del Premio Loria per racconti inediti ed è arrivata finalista in altri concorsi letterari.
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Pino

Cara Lorenza, alla mia seconda lettura in calma domenicale, ho capito quale capolavoro hai scritto sul capolavoro di Almodovar, rappresentato dall’intervista a Tilda Swinton. Sarà bello parlarne dopo che l’avrò visto. Un abbraccio. Pino.
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