di Giulia Pugliese
“Lee sapeva che da Allentorn non avrebbe avuto quello che voleva. Il foro della realtà aveva di fatto respinto la sua petizione. Eppure non poteva darsi per vinto. Magari riesco a trovare un modo di cambiare la realtà, si diceva”
Il regista Luca Guadagnino ha dichiarato che questa sarebbe stata la sua opera più personale, ed effettivamente si tratta di una trasposizione propria del romanzo di William S. Burroughs, Queer, da cui riprende ambientazioni e tematiche, portando però il film verso un’altra direzione: il tentativo di Lee un vecchio junky (tossicodipendente) americano di instaurare un legame d’amore autentico con un ragazzo più giovane.
Il film, diviso in capitoli, si apre con Lee alias Burroughs che si aggira per le vie di Città del Messico (a volte Cinecittà, a volte la Sicilia), circondato da pochi amici, spesso ubriaco e profondamente solo, capace solo di ottenere rapporti sessuali privi di sentimento. Con l’arrivo di Allerton (Drew Starkey), un giovane contabile americano, in Lee/Burroughs si riaccendono il desiderio e la voglia di un legame umano.
L’arte di Guadagnino sta nel creare momenti di autentico desiderio tra i personaggi, scintille reali e tangibili, e potremmo definirlo il “regista del desiderio”, come dimostrato nel magnifico Chiamami col tuo nome. Tuttavia, nel caso di Craig-Starkey, questo non si è pienamente realizzato: il miracolo non è avvenuto. Infatti, sembra più il rapporto tra uno stalker e un ragazzo che vorrebbe essere lasciato in pace (lo dice esplicitamente nel film: Lee gli chiede “cos’hai da perdere?” e lui risponde “la libertà”). Nel libro, l’aspetto della disintossicazione è preponderante: lo stesso scrittore affermava che Junky era il libro della dipendenza, mentre Queer era il libro dell’astinenza, tema che nel film viene trattato in modo superficiale e con troppa facilità.
Coraggiosa e ben girata, invece, è la scena in cui Burroughs si inietta l’eroina sul braccio, che risulta progressista, priva di giudizi e anche poetica. La parte più riuscita è il viaggio nella giungla, rappresentato con grande poesia, in cui i due personaggi si conoscono intimamente, a livello emotivo e neuronale, per poi separarsi.
Queer è troppe cose insieme: la storia di un uomo solo e pieno di sensi di colpa, il dramma della dipendenza da droghe, alcool e relazioni, la luminosa storia d’amore tra i due protagonisti, e il viaggio di crescita e scoperta dell’ignoto, fino a un epilogo insignificante. Il film, che vuole dare una propria visione del libro, si perde in essa e rimane lì, sospeso. Emergono tre elementi: da un lato, la volontà di rendere più accondiscendente la poetica e la politica di Burroughs; il film avrebbe dovuto essere una fusione tra la visione cinematografica di Guadagnino e il libro, che è sporco, decadente e crudo. Invece, la prima ha finito per prevalere sulla seconda. Anche se l’idea romantica e l’estetica ricercata potevano funzionare, soprattutto per distanziarsi dall’immaginario cronemberghiano, sarebbe stato necessario un maggiore approfondimento sul personaggio di Burroughs (incanalando il suo senso di colpa per la morte della moglie, mostrando più chiaramente le sue crisi d’astinenza e spiegando meglio le sue visioni) e sul suo passato.
Inoltre, il film presenta un concetto elitario di cinema, che lo rende comprensibile solo a chi già conosce Burroughs e la sua storia. Per esempio, ci viene mostrata Joan e il suo triste destino per ben tre volte, senza che queste immagini siano adeguatamente contestualizzate o spiegate. Considerando che le persone che vanno al cinema sono “più” (ancora per poco) di quelle che leggono, è questa la scelta giusta? Dopotutto, il cinema è ancora un’arte popolare.
C’è una ricerca d’immagine e contenuto in alcune scene, mentre altre sembrano essere state inserite come riempitivo. L’impressione complessiva è quella di un film discontinuo, che forse ha subito eccessivi tagli per ridurne la durata. La questione del citazionismo nel cinema post-moderno, inoltre, sembra stia sfuggendo di mano. Il risultato finale lascia perplessi, ed è un peccato, perché si percepisce l’enorme lavoro dietro al film e la complessità del progetto. Non è chiaro se sia mancata un’idea precisa, una direzione coerente o se si sia semplicemente esagerato con troppi elementi. Tuttavia, anche se il film non è perfetto, speriamo che quell’abbraccio nella giungla rimanga per sempre.