Marco (2024), Orizzonti, di Aitor Arregi, Jon Garaño

di Lorenza Del Tosto

Esiste in Spagna un certo tipo di cinema, sconosciuto ai più, ed esiste alla Mostra di Venezia una sezione geniale: Orizzonti. Quando i due universi si incontrano capita che piccoli gioielli come Marco, destinati al godimento di pochi, arrivino a sorprendere un pubblico più grande e qualche giornalista si avventuri, sotto il caldo infuocato del Lido, per venire a conoscere gli autori in uno spazio assolato accanto all’Hotel Des Bains, ormai in disuso.
Aitor Arregi, Jon Garaño e José Mari Goenaga registi, sceneggiatori e produttori baschi, raccontano una storia che, pur ambientata in Catalogna fuori dai loro Paesi Baschi,  continua a scavare, come tutto il loro cinema, nelle zone in ombra della  storia spagnola recente e nei misteri della natura umana.
Misterioso di sicuro è il protagonista, interpretato da un gigantesco Eduard Fernandéz:  un vitalissimo signore che per molti anni ha fatto  credere, non solo all’opinione pubblica, ma alla sua stessa famiglia, di essere stato prigioniero nel campo di concentramento nazista di Flossenbürg.Carismatico, affabulatore, ammirato per il suo coraggio, Eric Marco viene eletto presidente dell’Associazione Spagnola delle Vittime dell’Olocausto. Fino al giorno in cui un giovane storico scopre che il suo racconto è totalmente inventato.

Eccoci qui con Aitor Arregi, una bella barba bianca e occhi da Mago Merlino e Jon Garaño, barba scura e sguardo profondo, che immuni sembrano al caldo infuocato di questo spazio all’aperto dove molti si accasciano ai margini sventolando ventagli. Bruciano di una passione sotterranea che traspare evidente negli occhi di Aitor e rimane più celata dietro il sorriso e i modi composti di Jon. Sono loro i due registi del film e José Mari è lo sceneggiatore. Perché la triade ha un modo tutto suo di lavorare che Aitor ci tiene a spiegare con orgoglio: loro tre si sono conosciuti 25 anni fa e già dal primo corto, girato in grande spirito di collaborazione, hanno adottato un metodo di lavoro sui generis . A seconda del progetto, due si occupano della regia e il terzo della sceneggiatura, alternandosi.
Sorride, come se stesse offrendo all’ascoltatore accaldato una ricetta segreta, un metodo di lavoro caldamente consigliato a tutti. Sciorina i titoli dei loro film indicando di volta in volta, puntigliosamente, chi erano i registi e chi lo sceneggiatore. Per non creare fraintendimenti e dare merito a ciascuno.
“Soltanto ne La Trincea Infinita eravamo tutti e tre alla regia. Ma …abbiamo capito che è troppo” strizza l’occhio divertito “e siamo tornati al 2 più 1.” Una formula con cui hanno girato corti, lungometraggi, documentari, e ora anche una serie su Disney+ sull’enigmatica figura dello stilista Balenciaga, vincendo premi Goya e candidature agli Oscar.
E se sfuggente è la figura di Balenciaga, non lo è certo da meno Enric Marco,  che non ha risparmiato i suoi inganni neanche ai nostri registi. Tra bugie, battute d’arresto e tradimenti, la lavorazione del film è durata 18 anni. Non c’è dunque da stupirsi del loro sollievo per l’opera finita ora che Marco, deceduto,da poco, all’età di 101 anni, non potrà escogitare nuovi tranelli.
Aitor espone con slancio la travagliata vicenda, lasciando spazio a Jon che perfeziona il racconto con pochi tocchi pacati, in una prova di collaudata collaborazione: quando, nel 2005, viene fuori lo scandalo sulla sua vera identità, il finto deportato, invece di murarsi in casa per la vergogna, accorre ad ogni programma di radio e Tv per dare vita a nuove varianti  del suo personaggio. A quel punto la triade propone ad Enric Marco di girare un documentario su di lui. Proposta che l’interessato accoglie con enorme entusiasmo.
“Iniziamo a vederci e a registrare interviste, tutto va a gonfie vele, finché un bel giorno ci comunica che deve allontanarsi per andare a recuperare, in Germania, certi documenti a prova del suo soggiorno in carcere. Ci sembra interessante, gli chiediamo che ce ne parli, ma lui si scusa dicendo che si tratta di questioni personali. Parte e…non lo vediamo più…  Dopo abbiamo scoperto che era in Germania a girare un altro documentario, con altra gente.”
Ed è il documentario che appare anche nel film che, in un gioco di specchi, per ritrarre un personaggio tanto manipolatore, usa materiali d’archivio e pura finzione, all’inizio nettamente separati e poi, via via, indistinguibili.
“Anni dopo, nel 2010, al Festival di San Sebastián ce lo vediamo spuntare davanti. Ci porta in omaggio  la  butifarra. “ L’insaccato di maiale tipico della Catalogna di cui il protagonista, nel corso del film,   fa omaggio a chiunque possa aiutarlo nella sua ambizione. “Ci spunta davanti e ci chiede di riprendere il discorso del documentario. Non era soddisfatto del precedente e ne voleva uno migliore. Superato lo shock iniziale lo abbiamo inchiodato per tre giorni serrati di interviste. Senza mai mollarlo.”
“Ma si è scusato per il tiro che vi aveva giocato?”
Scuotono la testa.
“Era una persona a cui costava molto chiedere perdono. Non rispondeva mai alle nostre domande, dava altre risposte. Dovevamo marcarlo stretto e anche così non funzionava.”
“E avete continuato a fidarvi di lui?” Chiede il giornalista stupito.
Jon prende il suo tempo per rispondere. E’ una domanda importante che riguarda l’essenza stessa del loro cinema.
“Noi volevamo, sì, raccontare la vicenda, ma soprattutto volevamo capire: perché ha fatto quello che ha fatto? Un’enormità fingere su un tale orrore. E perché, una volta scoperto, è rimasto afferrato al suo personaggio? C’era un aspetto picaresco nel suo dannarsi per la sua fama.”

Nel silenzio le domande restano sospese nell’aria.

“Certo la vanità ha il suo peso.” Riprende il filo Jon “Ma credo che a muoverlo fosse soprattutto il bisogno di uscire dalla sua vita grigia, diventare una persona più interessante di quella era. Essere amato, rispettato e ammirato. Aveva scoperto di avere un grande potere con le parole, raccontava storie appassionanti e voleva continuare a farlo. Non accettava di uscire di scena. Non è poi diverso dal bisogno di ammirazione che oggi dilaga sui social media. Tutti vogliono sembrare migliori di quello che sono.”
Si avverte qualcosa negli occhi e nelle parole di Aitor e di Jon mentre cercano di spiegare il loro personaggio, senza mai riuscirci. Come se, nonostante tutto, il mistero fosse rimasto tale. Nonostante i molteplici inganni e le risposte elusive, non possono negare che Enric Marco, con la sua manipolazione, abbia dato voce ai sopravvissuti ai campi di concentramento nazista che la Spagna ha costretto al silenzio. Finita la Seconda Guerra Mondiale, Franco ne ha impedito il ritorno in patria, costringendoli a restare in Francia.


Enric Marco ha colto, in questa vergognosa zona di silenzio, la sua possibilità. Ha dato loro voce nelle scuole, nelle università e ovunque. Nel 2005, grazie alla sua tenacia, per la prima volta, dopo 60 anni dalla fine della guerra, il parlamento spagnolo ha aperto le sue porte ad un sopravvissuto.  Che non lo fosse si è scoperto solo dopo. 
“Il nostro Paese ha difficoltà a fare i conti con il suo passato. Molti non vogliono ricordare che c’è stata una dittatura.” Dice Aitor. “Noi invece vogliamo ricordare. “Difficile trovare il tono e il modo per raccontare una storia che oscilla tra gravità estrema e la picaresca di un imbroglione disposto a tutto pur di essere ammirato. Dall’idea iniziale del documentario sono passati alla forma ibrida e poi alla pura finzione. Chi meglio del cinema può raccontare il gioco infinito di verità e menzogna nelle nostre vite?
“Che prospettiva usare? Un occhio esterno? O la testa di Marco? Non potevamo giudicare il nostro personaggio, anche se ben si prestava, e neanche assolverlo.”
(Come fanno, nella realtà, moglie e figlia di Enric Marco ed è un peccato che nella sfera personale del personaggio gli autori non si addentrino.)
“Una storia che giudica il suo personaggio nasce zoppa e non va lontano. Così abbiamo optato per un punto di vista intermedio. Lasciamo che sia lo spettatore a decidere.”
I giornalisti, che si sono avventurati sotto il sole rovente per discutere di questo grande mistero, ora si allontanano pensierosi tra la folla dei viali della Mostra dove tutti scattano foto. Dove tutti si mettono in posa per farsi vedere, guardare e ammirare. Vanità della vanità.
Il film uscirà nelle sale italiane e magari qualcuno tra gli spettatori troverà una chiave, o un indizio tra il materiale d’archivio, che aiuti a capire il mistero di questo bisogno d’amore che solo l’ammirazione sembra appagare e che i 18 anni di lavoro non son riusciti a svelare.

Nel film sono infatti presenti immagini d’archivio e di finzione dapprima esplicitamente differenziate; poi anche le immagini di repertorio sono ricostruite, in una soluzione che ricorda non poco Jackie di Pablo Larraín; nel finale, quando è ormai chiaro quali siano gli aspetti reali e quali quelli inventati della vita di Marco, il film porta a compimento un arco opposto, in cui i due piani si integrano e si confondono, con sequenze in cui le immagini di repertorio e quelle di finzione sono montate una di fianco all’altra, indistinguibili. Se quindi nella vicenda del protagonista è fondamentale individuare dove stia la verità, fondamento totale della sua testimonianza, nel cinema si ha un’inversione di quest’idea, essendo al contrario una materia, quella filmica, che scaturisce esclusivamente da un’alterazione della realtà stessa.

Informazioni su Lorenza Del Tosto 29 Articoli
Lorenza Del Tosto Vive a Roma con le sue figlie e il gatto Leo. Interprete di Conferenza free lance. Tra le sue passioni: le serate di chiacchiere con gli amici, il cinema, la letteratura e l’Aikido. Ha una rubrica Lost in Translation con ritratti di attori e registi per cui lavora. Ha vinto un’edizione del Premio Loria per racconti inediti ed è arrivata finalista in altri concorsi letterari.
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