di Giulia Pugliese
“Io pagherò con la vita la mia lealtà al popolo e posso assicurarvi che ho la certezza che al grano che noi abbiamo seminato non si potrà mai impedire di germogliare. Costoro hanno la forza, essi possono ridurci in schiavitù, ma non è con i crimini, né con la forza che si possono guidare dei processi sociali.
La storia è nostra, sono i popoli che la fanno.” Ultimo discorso di Salvator Allende 11 settembre 1973.
Da diversi anni, i paesi sudamericani stanno rivisitando la loro storia e provando a creare una memoria condivisa, con l’obiettivo di promuovere la riunificazione nazionale e impedire che si ripetano gli eventi accaduti durante le dittature militari tra gli anni ’60 e ’70. Il cinema sta giocando un ruolo importante in questo processo. Inizialmente, i film puntavano soprattutto a scioccare lo spettatore (La storia ufficiale, 1985; La notte delle matite spezzate, 1986; Garage Olimpo, 1999), poiché le società sudamericane sentivano la necessità di scuotere i giovani che si erano dimenticati cosa fosse la dittatura e attirare anche l’attenzione di un pubblico straniero poco informato su quella storia. Nel corso degli anni, questo tipo di cinema si è ammorbidito, abbracciando il dramma storico e virando verso storie personali e reali, come nel caso di El Rapto (che racconta la storia del rapimento dell’imprenditore Julio Levy in Argentina), presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, edizione 80, e come questo film di Walter Salles, che racconta la storia di Eunice Paiva, una donna alla quale la dittatura ha ucciso il marito Rubens Paiva, ex deputato del Partito Socialista Brasiliano. Nonostante la dittatura neghi di aver rapito e ucciso il marito, la donna, madre di cinque figli, non si arrenderà mai nella ricerca della verità e del corpo del marito. Il dramma storico-personale consente di dare un contributo registico più personale alle storie narrate e di costruire un linguaggio cinematografico.
Il Brasile è forse il meno prolifico tra i paesi sudamericani nel trattare temi legati alla dittatura e alla memoria storica. Ainda estou aqui colpisce per la capacità di ricostruire un periodo storico, gli anni ’70, attraverso musica, costumi e dialoghi (come le lettere della sorella maggiore che raccontano l’Inghilterra di quegli anni). La forza del film risiede nella sua eroina, di cui seguiamo sia le gesta più eroiche (la prigionia, la ricerca della verità ininterrotta per anni e la lotta in tarda età per la tutela delle terre degli indios) sia quelle quotidiane (come trovare i soldi per far mangiare i suoi cinque figli). Fernanda Torres è particolarmente convincente nell’interpretare una donna che vuole tutelare i propri figli, proteggerli e renderli forti, come quando fanno delle foto per un quotidiano per riportare l’attenzione sulla storia del padre. Il fotografo chiede loro di non sorridere, ma lei li incoraggia a farlo, dimostrando che la dittatura non porterà via la loro vita. Questa grande interprete del cinema brasiliano, che spero di vedere di più nelle prossime stagioni cinematografiche, offre una prova impeccabile.
Il film, che ha innumerevoli pregi, presenta però un grande difetto: insiste troppo sull’emotività dello spettatore, cercando la lacrima facile e calcando troppo sui ricordi familiari (come la scena del trasloco e quella di Eunice anziana che guarda il telegiornale). Questo porta a mettere da parte un dramma nazionale per abbracciare interamente quellofamiliare, che però non serve in modo efficace a raccontare la storia di una nazione. Inoltre, la vera catarsi sembra avvenire con la morte del cane di famiglia (John Wick docet!). Puntare sull’emotività dello spettatore è un espediente semplice, che banalizza una storia vera di una donna che non si è mai arresa e che è riuscita a ricostruirsi una vita nel Brasile democratico, come avvocata per i diritti civili degli indios. È svilente che un prodotto di così alta qualità scenica si presti a questo gioco.
Non è bizzarro che un film tratto da un libro e basato su una storia vera abbia vinto il premio per la miglior sceneggiatura a Venezia; forse sarebbe stato meglio premiare un’idea originale?