Miglior Regia per “Un certain Regard” Cannes 2024
“Volevo mettere in scena una rappresentazione della guerra che trascende dalla guerra stessa, la condizione esistenziale dell’essere in guerra” Roberto Minervini
di Giulia Pugliese
Roberto Minervini è un documentarista, anche la sua prima opera di finzione vera e propria, non perde quella matrice e soprattutto continua a trattare la società americana, le sue scissioni e contraddizioni come fatto nelle sue opere precedenti: Louisiana (The Other Side), Che fare quando il mondo in fiamme? Presentato al Festival di Venezia nel 2018 e Ferma il tuo cuore in affanno, che nel 2013 era tra le proiezioni speciali al Festival di Cannes. I documentari avevano comunque una componente di finzione, ma raccontando una storia ambientata in un passato così remoto, in questo caso si distacca completamente da quel tipo di narrazione.
Ormai il cinema moderno è anti-catartico e anti-epico, come dimostra il Dune di Denis Villenueve, il film ci mostra una guerra sommessa con poche sparatorie e poca azione, un’attesa della guerra e degli uomini pieni di domande, di voglia di condividere con i loro commilitoni dubbi, il loro passato e le motivazioni che li hanno portati in guerra. Gli vediamo vivere la loro quotidianità giocando a baseball o a carte e quasi ci dimentichiamo che siamo durante un conflitto. Siamo nel 1862, negli Stati Uniti si consuma la guerra civile, ad un gruppo di soldati dell’esercito nordista (la parte contro la schiavitù), viene ordinato di accamparsi in alcune terre ancora non mappate ad occidente, lì dovranno aspettare che arrivi l’altra parte delle truppe.
La natura così inesplorata e selvaggia emerge a tratti, ma i grandi protagonisti sono i volti così moderni, ma anche antichi dei soldati con lunghe barbe folte o volti imberbi di ragazzini. La camera di Roberto Minervini gli sta addosso, ma non come farebbe Kiarostami in Close-up nel tentativo di investigare e scavare la verità o nel modo politico dei fratelli Dardenne, ma una naturale messa al centro dell’umanità che descrive, come se in fondo non ci fosse niente di più interessante che quegli uomini e quello che raccontano, aiutato anche dall’uso dell’aberrazione cromatica con cui “deturpa il paesaggio” e incornicia i volti di questi, grazie a delle ottiche vintage, recuperate in vecchi studios di Hollywood. Un cinema che mette al centro l’uomo e i suoi personaggi come già aveva fatto nei suoi documentari.
Questi personaggi di cui sentiamo a tratti i nomi e le loro storie, a loro malgrado, sono degli eroi, la fine della schiavitù è una tappa fondamentale nella società razionalista occidentale, oltre che la cosa eticamente e moralmente giusta, tuttavia i personaggi si chiedo perché stanno combattendo contro altri americani, se questa guerra sarà un passo in avanti per la società statunitense o se ne porterà la scissione permanente. I dannati ci porta a due fatti sostanzialmente reali, molto spesso i soldati non si arruolano per questioni morali, in questo caso i personaggi si ritrovano dalla parte giusta, ma quanto sia giusta questa parte, c’è l’ha detto solo la storia successiva. L’altra questione è la polarizzazione che sta vivendo l’America negli ultimi anni. È forse dovuta alle vicende storiche raccontante nel film? Il patriottismo imperante, i tentativi di una pacificazione, la frustrazione di chi ha perso e questo dover mettere a tacere le posizioni sudiste, senza che le istituzioni abbiano analizzato e ponderato delle soluzioni, ha fatto si che queste posizioni si siano esacerbate creando il Klu Klux Klan, che come lo stesso Minervini spiega in Che fare quando il mondo in fiamme? è ancora attivo in molti stati del Sud, commette omicidi con il bene placido di un parte della politica. Se tutto derivasse dalla guerra civile e dalla mancanza di un’analisi di questa?
I soldati vengono appunto de-eroicizzati, si fanno domande e mettono in dubbio i loro comportamenti, le loro conversazioni portano a fare riflessioni su Dio e sulla mascolinità. Tutti hanno posizioni diverse, c’è un confronto tra di loro e un ascoltarsi con attenzione, nonostante la situazione di aperto conflitto, i militari riescono a parlare tra di loro e cercare comprensione. In una scena molto bella viene anche investigata la questione della mascolinità, il ragazzo più giovane e un altro commilitone si chiedono cosa vuol dire essere un uomo, il ragazzo dice che la guerra non l’ha reso più uomo, il commilitone più anziano dice che essere un uomo adulto è mettere da parte la rabbia e perdonarsi di come sono andate le cose. Sempre nel periodo in cui i due sono soli, il più vecchio accudirà il più giovane, medicandogli i piedi e spiegandogli che li deve tenere al caldo quando c’è la neve, in questo gesto quasi biblico, si vede un atto di cura che anche nella Bibbia è fatto da una donna, il prendersi cura che tipico del femminile diventa ad appannaggio dell’uomo più anziano in guerra, porta a una riflessione molto bella e profonda cos’è un uomo in una situazione di guerra.
I soldati di Minervini si interrogano, cercano un senso e si raccontano a noi e ai loro compagni, per narrare un storia americana che ci ha portato a quello che l’America è oggi e sono capaci di tornare ancora bambini facendosi cadere la neve sulla faccia e sulla barba. Così americani nell’essere pionieri e in parte cowboy che vanno verso l’Ovest, ma allo stesso tempo pieni di dubbi e di domande, in un film dove tutto rimane sospeso, anche la guerra stessa fatta dai nitriti di un cavallo spaventato. Pioniere è lo stesso Minervini che cerca di trovare una terza via nel cinema, né documentario né finzione. Premiato come miglior regia al Festival di Cannes nell’edizione del 2024 nella sezione Un Certain Regard.