di Pino Moroni
Il film Flaminia di Michela Giraud, ad una prima lettura sembra il prodotto non molto riuscito di una ulteriore sperimentazione del filone chiamato “all’italiana”, in cui ancora si ritrovano quegli elementi di agrodolce che hanno sempre caratterizzato la nostra commedia: ma senza più quelle basi solide di continuità e corposità narrativa che riuscivano a costruire i nostri migliori sceneggiatori e con un ritorno indietro nella delineazione dei caratteri di quei grandi personaggi principali e secondari che ci hanno resi famosi nel mondo.
Commedia all’italiana significava saper trattare in termini ironici vicende drammatiche in un mood dolceamaro. C’era una società che si faceva interclassista in una emancipazione storica, economica, sociale, sessuale.
I film sapevano mediare questi elementi nel farci ridere e riflettere allo stesso tempo. Si riuscivano a trasformare gli sketch satirici, i fumetti, i raccontini, in copioni con personaggi di grande spessore e profondità, umani, complessi, che uscivano dalle macchiette dell’avanspettacolo e diventavano persone vere di quella società italiana, che da povera stava diventando ricca e faceva ridere perché era ancora stracciona e cialtrona.
Ora l’arrivo in questo tipo di film di comici-intrattenitori dello stand-up comedy (che vanno a braccio con gags, battute, sketch e parolacce) ha abbassato il livello dei nostri film all’italiana. Non solo perché parlano solo di due ambienti, il borghese snob e il borgataro, con ripetuti stacchi e stereotipi, in una continua contaminazione senza sfumature, senza saper amalgamare queste due categorie.