Il Festival
Si potrebbe pensare che il Far East Festival con solo due sale e la locazione geografica lontana dai due grandi poli dell’industria cinematografica Milano e Roma, possa essere un festival minore. Invece è uno dei festival centrali per l’approdo dei film orientali nel mercato europeo e un festival importante nel panorama italiano. Nato nel 1999, dopo che l’anno precedente era stato interamente dedicato alla cinematografia di Hong Kong, ad oggi ospita film di 10 paesi (Hong Kong, Indonesia, Giappone, Cina, Sud Corea, Taiwain, Thailandia, Filippine, Vietnam e Malesia), con le sue 26 edizioni ha fatto breccia nel cuore degli appassionati di cinema orientale, nella critica classica, negli amanti dell’Asia e del cinema, non per forza del Sol levante.
Udine per 9 giorni all’anno si tinge dei colori, dei sapori e dei profumi dell’Oriente, creando un atmosfera unica e calorosa. Il Far East Festival non deve essere visto come un’esperienza per gli appassionati duri e puri del cinema asiatico, ma anche per chi è curioso e vuole provare a conoscere di più di quel cinema. Questo festival non è solo cinema, ma ha diverse attività collaterali: massaggi, cibo, mercatini e laboratori di artigianato. Consigliatissimo.
Concorso
Primo giorno
Arrivo a Udine il 25 aprile, dopo un passaggio al desk, dove tutti sono gentilissimi e disponibili. Inizio il mio festival con Dust to Dust di Jonatan Li, gli action di Hong Kong di solito solo molto adrenalinici con tante sparatorie e combattimenti, invece questo film d’azione si discosta dalla tradizione, concentrandosi su regia, fotografia e trama. Il film ambientato in Cina, è ispirato a fatti reali, parla della più grande rapina a una banca successa nella Repubblica Popolare cinese nel 1995, non racconta le vicende in maniera veritiera e non segue gli avvenimenti in maniera cronologica. Il film che a tratti può sembrare lento, verboso e non chiaro è come se fosse una matrioska, lo spettatore entra poco a poco nella storia per poi scoprire che questa lo porterà da tutt’altra parte. Notevoli le scelte registiche (specie durante la festa di capodanno e nel deserto), la prova attoriale e i riferimenti ad Hitchcock e John Woo. Ottimo inizio, il film è stato anche premiato dal botteghino cinese.
Il secondo film che vedo è un dramma familiare Trouble girl da Taiwan di Chin Chia-hua si concentra su un tema poco trattato nel cinema, i bambini con problemi gravi di ADHD, discostandosi molto dall’approccio hollywoodiano dei film, dove i bambini che soffrono di qualche disabilità o problema solitamente hanno dei genitori accudenti e comprensivi (per esempio Forrest Gump e Wonder). Il film ha due grandi pregi: concentra la narrazione sulla bambina, come spesso fanno i film asiatici e mette in scena un rapporto complicato e difficile tra una madre, persino più disfunzionale e una figlia, in cui entrambe vivono con frustrazione il loro rapporto. Il film risulta molto realistico e umano, specie nel ritratto di una madre superficiale (che posta in continuazione sui social), attenta all’opinione degli altri e sola, che vive in una società che la giudica come una cattiva madre. Lei stessa si sente inadeguata perché desidera comprensibilmente avere una figlia normale. Tuttavia quello che poteva essere un film coraggioso, viene risucchiato dall’eccessiva disfunzionalità di questa famiglia e dalla volontà di un’azione perpetua che non fa riflettere lo spettatore sugli avvenimenti.
Il terzo film è Time Still Turns The Page di Nick Cheuk, è un film veramente molto notevole per il grado di coinvolgimento emotivo che riesce a trasmettere allo spettatore, tratta uno spaccato reale della società di Hong Kong: la pressione che bambini e ragazzi ricevono da parte delle famiglie per riuscire a realizzarsi in una società competitiva e di un sistema scolastico poco attento al benessere di questi. Quando il bravo e attento insegnante Mr. Cheng (l’ottimo Chun Yip Lo), trova un biglietto di uno studente che parla di suicidio, si ritrova a rivivere la sua storia familiare. Bellissima la prima scena del film, lo scorrere del lungometraggio è cadenzato con un ritmo attento allo spettatore e capace di assorbire la durezza del film. Anche se il tema dei suicidi giovanili è molto trattato nella cinematografia asiatica, questo film riesce a darne uno sguardo nuovo e anche delicato, riuscendo a stupire e commuovere lo spettatore, tuttavia negli ultimi 10 minuti l’ opera, che probabilmente vorrebbe avere un utilità sociale, rasenta la retorica e perde mordente.
Secondo giorno
La giornata inizia subito malissimo, il film action indonesiano 13 Bombs di Sasongko Angga Dwimas che in originale si chiama 13 bombs in Jakarta, titolo che non crea neanche un po’ di mistero, è una vera delusione. Il mercato indonesiano, che negli ultimi anni si è concentrato sugli horror, si sta muovendo verso i film d’azione, chissà se in futuro potrà ambire a vedersi riconosciuto internazionalmente, sicuramente non con prodotti così. Troppo lungo, colpi di scena scontati, finale che da spazio a un sequel, un cattivo che vorrebbe essere sfaccettato, crearci un po’ di simpatia e dubbi morali, l’anarco anti capitalista Arok (Rio Dewanto), che invece risulta una macchietta senza spessore.
Invece rimango affascinata, colpita e scossa da Voice, film giapponese della regista Mishima Yukiko, quest’anno c’erano ben 13 registe in concorso, è un film antologico con diverse storie tutte legate al caso di una violenza sessuale su una bambina di 6 anni. La violenza è vista da diverse prospettive (dal padre della vittima, dalla donna che ama l’uomo che ha perpetuato questa violenza e dalla vittima cresciuta) e narrata successivamente ai fatti in tempi diversi tra loro. Il centro del film è il trauma, il senso di colpa ma anche la gestione della colpa stessa. La multi prospettiva con cui è raccontata la storia e alcune scene sono un chiaro e forte riferimento al cinema di Akira Kurosawa. Non è facile trattare temi così complessi al cinema e il film lo fa in maniera delicata, a tratti avvicinandosi alla vicenda a tratti allontanandosi da questa, in un film dove anche la natura si prende la sua parte e c’è un forte riferimento al cinema italiano, infatti nell’ultimo episodio c’è un personaggio che come nome d’arte si chiama Totò Moretti e mangia la Nutella. I giapponesi sono maestri nel rendere poetico il cringe.
Arriva l’horror delle 23,40 (!) Death Whisperer di Taweewat Wantha, anche questo molto deludente, in primis perché non fa paura. Parla di una famiglia di contadini, che vivono nelle foreste della Thailandia, con i loro bellissimi sei figli, quando la figlia Yam viene posseduta da un fantasma dalle fattezze femminili, comincia a stare male e ad avere comportamenti strani, per fortuna il fratello Yak (Nadech Kugimiya) decide di chiamare l’ispettore del villaggio e combattere questo demone per salvare la sorella. Il film è veramente troppo simile agli horror giapponesi con la presenza di questi spiriti femminili con lunghi capelli neri (The Ring per capirci). Un aspetto interessante è il conflitto generazionale tra Yak, che è portatore del nuovo e del moderno e il padre che invece rimane ancorato alla vita contadina e alle tradizioni. Inoltre penso che sia una mossa giusta partire dalla bellissima e selvaggia natura thailandese per mettere in scena horror più originali e con trame migliori.
Terzo giorno
Il terzo giorno inizia con un gran bel film sempre giapponese di Nagao Gen Motion Picture: Choke, ambientato in un futuro distopico, dove l’umanità è tornata allo stato primitivo, perdendo anche l’uso della parola. Seguiamo le vicende di una donna sola (Wada Misa) in un eterno ritorno nicciano, la donna ripete sempre le stesse azioni che le permettono di rimanere in vita: la raccolta dell’acqua, la caccia e il baratto con un mercante. La donna fa un sogno ricorrente e degli avvenimenti turberanno la sua tranquillità.
L’opera nasce dall’idea del regista di fare un film senza dialoghi, per riportare al centro l’importanza del movimento nel cinema giapponese, questo crea un abbattimento delle barriere culturali e un avvicinamento con la protagonista. Il lungometraggio trova la sua forza nel mettere in scena poco e renderlo tanto, attraverso una regia sofisticata, tecnica e un incredibile prova della sua protagonista, quello che tiene incollato lo spettatore allo schermo è il riconoscimento con la donna e l’empatizzazione con lei.
Finalmente è la volta del cinema Sud coreano, centrale negli ultimi anni, anche nel panorama internazionale. A Normal Family è un film con un alto budget, un regista di prim’ordine Jin-ho Hur , un cast di interpreti riconosciuto in patria e all’estero. Tratto da un libro La cena di Herman Koch, che ha già avuto diversi adattamenti cinematografici (tra cui uno italiano I nostri ragazzi di Ivano De Matteo, mentre quello americano The Dinner ha visto l’esordio alla regia di Cate Blanchett). Questa versione coreana non porta nessun nuovo valore alle versioni precedenti, il film è ben fatto, ha un buon ritmo e tiene sulle spine lo spettatore che prova fastidio perché vengono portate in campo questioni scivolose e personaggi di dubbia morale. La trama parla di due fratelli e le loro relative famiglie che si ritrovano ad affrontare una questione etica che riguarda i loro figli. Il film non riesce a integrare la trama negli aspetti culturali e sociali della società sud coreana e risulta senza personalità.
Il cinema di Hong Kong è sempre grande e sfarzoso, specie se si parla di Felix Chong, regista e sceneggiatore delle serie Overheard e Infernal Affairs. The Goldfinger girato nel 2021, è il film più costoso dell’industria cinematografica del paese, con un budget di 350 milioni di dollari di Hong Kong (41 milioni di euro). The Goldfinger è una sorta di The Wolf of Wall Street asiatico, è un film che trova proprio nella sua spettacolarità e ricchezza la sua ragione d’essere. La lunghezza, il suo prendersi troppo sul serio e la poca chiarezza nello spiegare allo spettatore gli aspetti finanziari della vicenda, che si basa su fatti reali, per portare avanti un’azione continua e funambolica, lo fanno risultare non completamente riuscito. Rimane una regia complessa e una prova attoriale come sempre notevole di Andy Lau e Tony Leung, che ingaggiano una sfida antagonistica degna di nota.
Quarto giorno
Sicuramente il film più brutto che ho visto durante questo Festival è il film cinese Wonder Family di Yang Song, tuttavia questo film comico, ad alto budget e di poche pretese, permette di fare delle riflessioni su cosa viene realmente visto dalle famiglie cinesi. Il film ha una comicità veramente bassa ed è un remake di un film russo Super family del 2016, è interpretato da una famiglia di comici molto famosa in Cina MaHua FunAge. Mette in scena comicità e super eroi (che vuol dire effetti speciali), due grandi trends e sicuramente verrà premiato al botteghino.
Molto interessante, ma poco riuscito è The Movie Emperor di Ning Hao, un film meta cinematografico, sull’industria cinematografica di Hong Kong, questo film, ma anche all’interno del festival si sente, ne mette in luce il periodo di crisi. La crisi è rappresentata dal fittizio Dany Lau, il sempre perfetto Andy Lau, che qui fa una grande interpretazione di una star di Hong Kong in crisi perché non riesce a battere Jackie Chan durante una premiazione. Questa sconfitta lo porterà a mettere in atto una serie di scelte sbagliate che lo porteranno a un’escalation distruttiva. Il film molto cinefilo (apprezzatissimo il riferimento a Holy Motors), perché Ning Hao è anche critico cinematografico, inizia divertente e brillante, ma alla fine gli eventi sono così paradossali che raggiungono livelli epocali che fanno si che non riusciamo ad empatizzare con il protagonista (la prova di Andy Lau risulta vana). Il personaggio portato in scena è egocentrico, pomposo, paranoico e indifferente al mondo esterno, questo è il problema più grande del film, oltre che l’opera sembra un prodotto di Robert Östlund, perdendo però in questo confronto. Successo in patria, dove forse i film dello svedese sono meno conosciuti.
Quarto giorno
Missing di Keisuke Yoshida è un film in cui non credevo molto e invece mi ha proprio stupito. Parla del dramma di una famiglia, ma soprattutto di una madre, a cui hanno rapito la figlia di 6 anni, sei mesi prima. Il film vestito da dramma familiare, è in realtà una complessa analisi sociologica sulla società giapponese. Il focus è come il caso viene trattato da un emittente locale, alla ricerca dello scoop, viene messa in luce anche un’investigazione carente e una crudeltà generalizzata che emerge dai commenti sui social. In Giappone, come in ogni parte del mondo, se succede qualcosa a un bambino, la colpa è sempre della madre. Missing mantiene una certa lucidità nel raccontare una storia con un alto grado di emotività e drammaticità, come è giusto che sia, tenendo sempre alta l’attenzione dello spettatore attraverso la narrazione e riuscendo a chiudere il film in maniera poetica e speranzosa.
Vedi anche: Far East Festival Profumi d’Oriente Udine#2