di Letizia Piredda
Ho continuato a pensare a lungo al film dopo averlo visto. C’era qualcosa che mi teneva in sospeso, un tassello mancante: ok abbiamo visto la connivenza di Höss e della sua famiglia, abbiamo visto la banalità del male in un film dove l’immagine tace quello che la musica grida o che perpetua con un rombo sordo continuo. Ma dove ha inizio la connivenza? Dove comincia la banalità del male? E dove sta l’orrore? In quello che vediamo, o in quello che non vediamo?
La bella e articolata recensione di Giulia Pugliese ci ha dato un quadro tagliente del film, così spiazzante proprio per l’immagine di normalità che ci vuole dare.
Per tutto il film nulla s’incrina nella vita familiare di Höss. La fotografia è implacabilmente nitida e così come le immagini sono nitidi i vestiti (inevitabile qui il richiamo a Kubrick e ad Haneche): si perchè quello che vediamo sta succedendo nell’oggi, sta succedendo ora.
Dobbiamo aspettare la fine del film per trovare questo incrinamento: Höss rallenta la sua discesa dei gradini perché accusa un malessere, sembra che debba vomitare, ha dei conati e sputa per terra. In una intervista il regista Jonathan Glazer a proposito di questa scena ha detto: “non è una presa di coscienza di Höss: la sua coscienza l’ha seppellita già da molto tempo. E’ la verità del corpo che rivela le bugie della mente. Che rivela ciò che siamo. E’ l’orrore reale: la cenere delle persone che ha aiutato a uccidere è dentro di lui. E’ l’orrore.”
Ed è stato lì nel soffocamento della coscienza che ha avuto inizio la banalità del male. E’ interessante come il regista tenda a precisare: “e questo non è avvenuto per passività, ma per una scelta attiva ben precisa”.
Subito dopo assistiamo a una metafora visiva: un lungo corridoio illuminato al centro e buio ai lati. La luce è nel presente e il buio a destra e a sinistra rappresenta il passato e il futuro, nel quale vediamo Auschwitz diventato un museo. Il film si pone come un’esperienza di visione, anzi di non visione. La coscienza con tutti i suoi risvolti inconsci è l’unica via umana che ci è dato di vivere. Ma questo è possibile solo se abbiamo il coraggio di superare quel muro.
Vedi anche: La zona d’interesse:living the german dream
Tano Pirrone interviene su La zona d’interesse, e io inserisco come commento la sua interessante recensione.
Ho visto finalmente La
zona d’interesse, oggi pomeriggio. Quando sono tornato a casa, dritto
dritto dal Mignon, sono andato a lavarmi le mani, due o tre volte, in modo
compulsivo. Allora mi sono detto che i pochi appunti che avevo preso durante la
proiezione non mi sarebbero serviti per dire le poche cose che avevo da dire.
Quella lavata di mani, che nulla ha a che fare con i pilati che abbondano in giro, è stata dovuta alla repulsione anche
fisica, oltre che psicologica, alla storia del film, il senso d’impotenza e
quello ancora più forte di corresponsabilità a… non so cosa scrivere: ora le
anime belle si sono impadronite anche del vocabolo coniato appositamente e lo
usano maldestramente fieri della loro albagìa e della scarsa conoscenza dei
fatti. Qual è l’argomento, mi si chiede; ed io che rispondo? L’Olocausto, la SHOAH (non c’è bisogno di scrivere
“degli ebrei”, perché questa parola quello significa e null’altro: sterminio “evitabile” del popolo ebraico).
Come “scarpa” o “rotolo di carta igienica”: quello sono e nient’altro… Per
raccontare un fatto così abnorme non sono ancora bastati centinaia di film e di
serie tv, non sono bastate migliaia di libri e decine di migliaia di articoli,
foto, testimonianze… Ogni penna che scrive ha qualcosa di altro da scrivere.
Ogni voce che parla, testimone diretto o comunque a conoscenza dei fatti, ha
sempre qualcosa di nuovo da dire. Resta, apparentemente immobile, quella
galassia di burocratica malvagità, ma variano gli sguardi, le riflessioni, le
musiche, le poesie, i romanzi, i racconti. Siamo lontani ottant’anni ma ancora
nelle nostre coscienze si sentono i fetori dei corpi bruciati, come vecchia
legna, macera, inutile; ci si appiccica sulla pelle la polvere che ricade
perenne.
E il sommo e giusto senso di colpa svicola in sofismi indegni dell’essenza di uomo!
Il “campo” non si vede o si vede poco, ma non per dare un
effetto a contrasto più forte, più emotivamente catturante: il campo non si
vede, o si vede poco e si sente ancor meno, perché era/è – con l’esclusione di
poche persone ancora coscienti (come la madre di quell’orrendo essere, coniuge
del capataz nazista) invisibile, non avvertibile, per mancanza di senso, di
sensibilità, di interesse, per paura, per incoscienza, per indifferenza, per
malvagità, per stupidaggine… per insufficienza di umanità.
Girato benissimo con grande tecnica nell’uso degli
obbiettivi e delle inquadrature; con grandissima abilità e sensibilità nel
ricreare gli interni, affidandole ad un contorno esterno da eden diabolico. Le
riprese si sono svolte ad Auschwitz. Sono state utilizzate cineprese piazzate
nella residenza degli Höß, ricostruita dallo scenografo Chrois Oddy,
utilizzando la luce naturale e permettendo agli attori di muoversi liberamente
all’interno della scena mentre erano ripresi da più di dieci angolazioni
contemporaneamente
Bravi e fedeli al contesto gli attori. Assolutamente
meravigliosa la piccola musica con flebile canto yiddish: pochi attimi di fuga
dolorosa bastano per una panoramica sulla storia su cui ogni altra parola è
insufficiente, inutile…