di Letizia Piredda
Difficile dimenticare le facce dei due protagonisti del film, dove un’espressione cristallizzata ci trasmette la fatica di vivere, la solitudine, la precarietà del lavoro, la disumanità del lavoro. Non recitano gli attori, ma le emozioni ci arrivano dal contesto, sono veicolate dagli accadimenti sempre in bilico tra il baratro e l’ostinazione alla sopravvivenza. “ Sono nata nel dolore, vestita di disillusione” dice una delle numerose canzoni che affollano il film. E le scene si susseguono come delle composizioni pittoriche: come dice Alberto Crespi “Kaurismaki e il suo fedelissimo direttore della fotografia Timo Salminen, non girano, dipingono” con l’immancabile impronta hopperiana. Interni poverissimi, addirittura lei non ha la televisione, ma solo una grossa radio sul tavolo, da cui arrivano continuamente notizie sulla guerra in Ucraina.
Esterni desolati. Grosse gru che sventrano qualsiasi panorama o agglomerato. E’ in questo minimalismo esistenziale che Hansa e Holappa si incontrano. Ma gli ostacoli sono subito dietro l’angolo: a turno perdono il lavoro, poi c’è l’alcoolismo di Holappa, “non voglio avere in casa un ubriacone” dice Hansa e subito dopo un tragico incidente porterà Holappa in coma all’ospedale facendo pensare al peggio. Attesa, distanza, incertezza, angoscia, con tutte le declinazioni possibili, segnano un periodo interminabile. Poi qualche timido segnale positivo: una casa ereditata dalla zia riscatta Hansa dallo stato di indigenza in cui versava. Le visite in ospedale, con i tragitti silenziosi e palpitanti. Attesa e poi un bagliore sul viso di lei ci dà la buona notizia: Holappa è uscito dal coma.
Fino alla bellissima scena finale, un richiamo a quella chapliniana di Tempi moderni, in cui li vediamo di spalle, con il cane adottato da Hansa e lui con le stampelle, che camminano finalmente verso un orizzonte faticosamente conquistato e non privo di incertezze.
Nota: Emanuela Martini ha sottolineato come almeno per una volta il titolo italiano sia particolarmente bello rispetto al titolo originale Fallen leaves (Foglie morte) perchè richiama Come le foglie al vento, un melò di Douglas Sirk degli anni ’50.