(INTERVISTA) Peter Webber: La ragazza con l’orecchino di perla. L’omaggio del regista a Jan Vermeer.

di Riccardo Colella

Questa è la storia di un quadro e della sua realizzazione. O per meglio dire: è la storia di come un quadro abbia ispirato uno dei film più interessanti dell’ultimo ventennio. Alcuni la definirebbero un semplice adattamento dell’omonimo romanzo scritto da Tracy Chevalier. Per il regista e i produttori, invece, La ragazza con l’orecchino di perla è un thriller famigliare, apparentemente tranquillo, sotto la cui superficie scorrono increspature di turbolenze emotive che, di tanto in tanto, emergono per sconquassarne la linearità.

Silenzi, sguardi fugaci e parole non dette fanno da cornice (è proprio il caso di dirlo), ad uno dei dipinti più celebri di sempre. È Johannes van der Meer, noto semplicemente come Jan Vermeer, a dipingere La ragazza col turbante, centro focale del film diretto da Peter Webber nel 2003. E nel mese di ottobre, che pochi documenti ufficiali e alcuni atti di vendita attribuiscono come quello di nascita all’artista olandese, ho raggiunto proprio il regista britannico Peter Webber per una lunga chiacchierata alla scoperta del film candidato a tre premi Oscar e della sua realizzazione.

Ragazza col turbante, Johannes Vermeer C. 1665, Olio su tela

Il film è ispirato all’omonimo romanzo scritto da Tracy Chevalier ma spesso gli autori non amano gli adattamenti cinematografici delle proprie opere. Quanto è fedele il film rispetto al romanzo, e qual è stato il parere dell’autrice sul film?

Innanzitutto devo fare una premessa: è passato davvero molto tempo da quando ho lavorato sulla sceneggiatura per l’adattamento del romanzo e dall’ultima volta che ho visto il film, quindi mi scuso se i miei ricordi sono un po’ confusi. La principale differenza rispetto al libro sta nel fatto che quest’ultimo è scritto tutto in prima persona, e il punto di vista è quello di Griet, il personaggio principale, che nel film è interpretato da Scarlett Johansson. Leggendo il libro, quindi, noi sappiamo cosa Griet stia pensando perché possiamo entrare nella sua testa e questo ci offre una prospettiva totalmente diversa rispetto al film. Questo è un qualcosa che nella letteratura riesce molto bene ma nel cinema, tutto è più difficile. La prima cosa da capire è stato, quindi, come avvicinarci il più possibile a quel punto di vista. In questo senso, il VoiceOver poteva rivelarsi un valido approccio ma, alla fine, abbiamo capito che non era la soluzione di cui avevamo bisogno e che avrebbe funzionato solo parzialmente.

D’altronde, come sai, Vermeer ci parla così tanto di silenzi, mistero e tranquillità, che non volevamo rendere il film “rumoroso” o sovraccaricarlo di dialoghi e voci. E credo che quello sia stato l’accorgimento più significativo. Nel film abbiamo dovuto semplificare le cose il più possibile: c’era una grande sequenza di dipinti in cui lei appariva ma alla fine abbiamo deciso di concentrarci solamente su di uno, modificandone alcuni dettagli come, ad esempio, la posizione del braccio. Sai bene che quando sullo schermo ripeti più e più volte la stessa cosa, il tutto può diventare un po’ noioso, quindi la sceneggiatura è molto più lunga e c’è molto più dialogo. È stato, infatti, quando mi sono ritrovato nella Cutting Room che ho realizzato di voler avvicinarmi il più possibile alle reali condizioni in cui Vermeer dipingeva. Quel silenzio e quel mistero che avvolgevano il tutto erano così intensi che ho finito col tagliare tantissimi dialoghi. D’altronde sia Colin (Firth, nda) che Scarlett sono stati così bravi che potevi davvero percepire quella tensione sessuale, nelle loro scene, da rendere superfluo ogni ulteriore battuta. Ti assicuro che era proprio così.

Mi sono limitato, quindi a prendere tutto il materiale che avevo e a ridurlo per ottenere un risultato adatto al cinema. In realtà, non abbiamo inventato nulla di nuovo ma solo dato un taglio all’immensa quantità di materiale che avevamo. C’erano una sottotrama e dei personaggi extra, ho apportato alcuni cambiamenti strutturali e riordinato le scene in modo leggermente diverso da come si fa normalmente. Inoltre, avevo girato due o tre finali ma, alla fine, ho scelto deliberatamente di lasciare il tutto molto aperto alle interpretazioni, affinché si percepisse un senso di mistero e imprevedibilità. Ho anche, in parte, modificato il finale ed è stato interessante notare che, quando ho presentato il film nei vari festival cinematografici e alle proiezioni, alcuni l’hanno adorato. Altri, invece, non hanno apprezzato quelle modifiche e si sono addirittura arrabbiati per il fatto che mi sia preso quelle libertà. Ma sai cosa ti dico? Credo sia stato Renoir, lo straordinario regista francese a dire che egli stesso cercasse più le differenze che le similitudini e credo che, tutto sommato, sia giusto così. L’importante è fare in modo che tutto funzioni.

Sia nel cinema che nell’audiovisivo, in generale, non devi farlo obbligatoriamente, a meno che tu non stia trattando uno dei Grandi Classici. Per gli inglesi, ad esempio, quando ti avvicini a Jane Austen o a Dickens, o addirittura a Shakespeare, allora sì, è il caso di essere il più possibile fedeli alle opere originali. Ma con Tracy è andato tutto bene. A lei il film è piaciuto ed è stata soddisfatta del successo che la pellicola ha ottenuto e anche delle vendite del libro. L’unica cosa che mi ha detto è che avrebbe odiato lo slowmotion ma quella tecnica è trattata così sottilmente nel film che non ci sono stati problemi di alcun tipo.

Peter Webber e Scarlett Johansson sul set del film

Di Vermeer si sa davvero poco, addirittura non se ne conosce con esattezza nemmeno la data di nascita. Come nasce la volontà di portare sul grande schermo la storia di una delle opere più importanti di un artista così misterioso? E cosa hai pensato una volta che ti sei trovato la sceneggiatura tra le mani?

Anziché basarmi sulla vita reale di Jan Vermeer ho lavorato sull’adattamento cinematografico del libro di Tracy. Il fatto che di questo artista si sapesse così poco, è stato di grande aiuto per lei e le ha permesso di modellare la sua storia, immaginando gli avvenimenti senza che nessuno conoscesse a pieno la ragazza del quadro, e il vero significato del dipinto stesso. La caratteristica di Vermeer, come ti dicevo prima, è rappresentata dalla natura poetica delle sue opere. L’atmosfera che queste evocano, il mistero, il silenzio. Era come trovarsi di fronte a una tela vuota, bianca. E Tracy Chevalier ha avuto la massima libertà per riempirla. In termini di narrazione, abbiamo approfittato del fatto che non ci fossero molte informazioni disponibili ma abbiamo comunque fatto un grande lavoro di ricerca. E questo lavoro puoi notarlo da diversi dettagli se osservi i suoi quadri. Ad esempio, lo studio in cui dipingeva Vermeer, oppure le finestre e la loro altezza, o ancora, il chiodo sul muro dietro i soggetti e le piastrelle blu sul pavimento. Abbiamo attinto dalle nostre fonti e poi grazie al computer design siamo riusciti a ricostruirne il reale aspetto e dimensioni.

Oltre alla produzione di Vermeer, inoltre, studiando i vari dipinti olandesi di quel periodo, abbiamo compreso visivamente tutti quegli aspetti. I mobili, gli utensili, le stoviglie e l’abbigliamento. Tutto si basa su una ricerca molto seria, intensa ed anche stimolante. Quanto a me, ricomincerei a studiare per poter scrivere una tesi su di lui ma ho già studiato storia dell’arte all’università, quindi conoscevo già il suo modo di lavorare. Il motivo per cui volevo realizzare il film era che mi capitò di vedere il ritratto quando ero molto giovane, e mi commossi davvero tanto. Ricordo che ebbe un profondo effetto su di me, e successe molti anni prima che decidessi di girare “La ragazza con l’orecchino di perla”.

Una cosa di cui sono particolarmente orgoglioso è che, ad oggi, grazie al libro di Tracy e al film, il quadro è uno dei più famosi al mondo. Se fai una ricerca sul web o guardi le pubblicità di tutto il mondo, capisci come la Mona Lisa sia la donna più famosa di tutte. E chiariamoci, penso che lo sia ancora. Nel panorama delle figure femminili nell’arte è sicuramente lei la più celebre ma credo che “La ragazza con l’orecchino di perla” sia al secondo posto tra queste, superando tante altre opere. Sta proprio in questo il genio di Vermeer. Tracy ha molto talento, assolutamente. Ma credo che, fondamentalmente, siamo tutti dei “pigmei” di fronte a quel gigante artistico che era Vermeer. Lei ha portato la sua arte ed io la mia, ma nulla sarebbe successo senza Vermeer e i suoi dipinti e tutto questo è fantastico. Sono davvero orgoglioso di aver contribuito a far conoscere questo artista ad un pubblico molto più vasto di quanto già non fosse.

Scarlett johansson e Colin Firth in una scena del film

Vista l’importanza della luce nella pittura, osservando “La ragazza col turbante” è possibile notare come questa giochi un ruolo fondamentale non solo nell’opera ma in tutta la produzione di Vermeer. Come sei riuscito a riproporre lo stesso gioco di luci e ombre presenti nel quadro, nel film?

Quello che ho fatto è stato coinvolgere il fantastico direttore della fotografia portoghese, Eduardo Serra, nella realizzazione del film. Lui ora vive e lavora in Francia e non collabora più con noi ma abbiamo dedicato moltissimo tempo a studiare e progettare la direzione delle luci, anche in base all’orario del giorno rispetto al film. Abbiamo capito come l’illuminazione doveva filtrare dalle finestre e a che ora del giorno i dipinti venivano realizzati. In quel modo, abbiamo potuto ricostruire esattamente i raggi di luce fredda, tipicamente nordica, che gravitavano sul lato sinistro del dipinto. Un altro sistema che abbiamo adottato è stato quello di differenziare le luci, in modo da ricostruire fedelmente quell’illuminazione che poteva penetrare in uno studio disordinato come effettivamente era quello di Vermeer.

L’ispirazione per le altre scene, però, ci è venuta studiando le pitture dli altri artisti olandesi come Meindert Hobbema o Paulus Potter. C’è un numero di dipinti sorprendente risalente a quel periodo e il mondo si è ispirato a quei lavori e ai grandi maestri olandesi. Noi abbiamo ottenuto quell’illuminazione “alla Vermeer” ed è stata una sfida molto affascinante, in termini di messa in scena, far sì che molti di quei dipinti riprodotti fossero il più possibile simili a quelli reali. Ho cercato con grande impegno di ricreare quel senso della composizione e sono stato molto tecnico nel farlo: cambiando le inquadrature, modificando le lenti e gli obiettivi. Poi, però, mi sono reso conto che quella di Vermeer era una visione artistica del mondo, non la realtà. E per quanto tu possa avvicinarti, non arriverai mai a comprenderla pienamente.  Di certo non attraverso le lenti di una telecamera. E nonostante sembra che Vermeer avesse utilizzato una camera oscura come una “macchina per la composizione”, credo che le relazioni tra le due realtà appaiano leggermente diverse. Ecco perché quel senso della composizione era qualcosa di così importante: sia limitatamente alle disposizioni più semplici che a quelle più elaborate che hanno subito le influenze degli artisti che ti ho citato prima.

Il regista Peter Webber

Negli anni del college hai studiato arte. Cos’hai provato quando ti sei trovato di fronte al dipinto?

Sì il mio percorso di studi è stato quello ma è bene che tu sappia che, attualmente, sono più un “artista pratico”. Purtroppo la coordinazione delle mie mani è davvero pessima: riesco a malapena a firmare e la mia calligrafia sembra quella di un bambino di tre anni. Credo sia questo il motivo per cui sono finito a raccontare immagini attraverso i film, altrimenti sarei stato un artista. Ma attualmente sono un “artista frustrato” che lavora dietro una macchina da presa. Io ero già profondamente immerso nel mondo della pittura olandese e in quello di Jan Vermeer in particolare, quindi avere la possibilità di trascorrere le mie giornate lavorative vivendo in quel mondo è stato davvero incedibile. Quando lavori è così, ed entrare nello studio del pittore, una volta che il team aveva finito di ricrearlo così fedelmente, è stata un’esperienza assolutamente meravigliosa e commovente. Sembrava davvero di essere entrati in un dipinto e il senso di realismo era incredibilmente potente ed entusiasmante.

Abbiamo fatto anche delle scelte sbagliate, sempre nel tentativo di cogliere quanto più possibile il senso di realismo. Normalmente si lavora in piano ma noi abbiamo realizzato delle vere scale per dividere il pavimento in due livelli diversi. Lavorare in queste condizioni, con tutte le restrizioni che possono derivarne, diventa complicato se puoi farlo, invece, in un modo più semplice. Addirittura, per la casa di Vermeer, siamo arrivati a costruire un vero basamento e quindi a girare praticamente su tre livelli diversi. Forse è stata una cattiva idea o forse ha funzionato, ma ci sentivamo come se vivessimo davvero nella casa di Vermeer.

Cillian Murphy e Scarlett Johansson in una scena del film

Il film è stato il tuo primo lungometraggio e c’è una coralità di grandissimi attori: da Colin Firth a Tom Wilkinson, fino a due degli interpreti più importanti di oggi come Cillian Murphy e Scarlett Johansson. Com’è stato dirigerli tutti?

È stato il mio debutto, se lo intendiamo come legato prettamente al cinema o con un budget di quel livello; ma già dieci anni prima avevo iniziato a dirigere film per la TV e documentari. Ancora prima, addirittura, lavoravo già nelle sale di montaggio, quindi direi che quando il momento è arrivato ero già piuttosto preparato. Sì, probabilmente in principio ero un po’ intimidito da personaggi come Colin Firth e Tom Wilkinson ma, come sai, sia Cillian Murphy che Scarlett Johansson erano all’inizio delle loro carriere e non i titani del cinema che sono ora. Addirittura ho dovuto battermi parecchio per inserire Scarlett nel cast, visto che in quel periodo non era così famosa. Aveva già preso parte ad alcuni film da bambina e a pellicole come “Ghost World” e “L’uomo che non c’era” ma quando ha lavorato con me, aveva appena finito di girare “Lost in Translation”. Forse dire che quel film e “La ragazza con l’orecchino di perla” abbiano lanciato la sua carriera è un po’ troppo, da parte mia. Ma sicuramente hanno contribuito a quel percorso che le ha permesso di essere conosciuta da un pubblico molto più ampio e che l’ha portata a diventare una star del cinema a tutti gli effetti.

Quando mi sono trovato a lavorare sulla sceneggiatura, mi è piaciuta molto ma sentivo di voler cambiare qualcosa. È così che, insieme ad Olivia Hetreed, abbiamo preso la decisione di portare il film ad affrontare il tema dell’ossessione. Quella amorosa, l’ossessione erotica e del modo in cui questa caratteristica veniva incanalata nell’ispirazione dell’artista. C’erano altri aspetti della sceneggiatura che, in quel momento, mi interessavano di meno ed erano quelli relativi al lato economico e finanziario di quel periodo storico in cui è ambientato il film. Il fatto che il denaro ti portasse in cima alla società. Io volevo solamente creare un’atmosfera intima, che fosse emotivamente intensa e che mostrasse un erotismo sublimato ma represso. Era questo che mi interessava esplorare.

Su gentile concessione di Peter Webber, alcune immagini del regista sui set e durante i suoi workshop:

Pubblicato su Stazione Cinema

Informazioni su Riccardo Colella 7 Articoli
Ha visto cose che voi umani non potreste immaginarvi, ama le offerte che non si possono rifiutare e la sera non va a letto presto. Pensa in fretta quindi parla in fretta, ogni tanto dà la cera e toglie la cera ma nessuno può chiamarlo fifone. È un bravo ragazzo, beve Martini agitato, non mescolato e la vanità è decisamente il suo peccato preferito. Ah, è giornalista con la passione per la New Hollywood degli anni ‘70 e, quando non ascolta vinili, scrive di cinema e sport da combattimento. Nel settembre 2022 ha pubblicato con Domenico Paris il Libro Professione fenomeni. Le storie di dieci grandi pesi welter, edito da Absolutely Free Libri.
Sottoscrivi
Notificami
guest
0 Commenti
Il più vecchio
Il più recente Il più votato
Feedback in linea
Visualizza tutti i commenti