Pirandello nel terzo millennio[1]
di Tano Pirrone
Il tumultuoso ingresso della Storia nel Terzo Millennio dell’Era Volgare vede il buon vecchio Pirandello sempre in ottime posizioni fra gli scrittori italiani fertili suggeritori di trame per il nostro non sempre vivissimo cinema: nel 2001, anno di sorprese e di giganteschi misteri, va sugli schermi Chi lo sa? (Va savoir) di Jacques Rivette, seguito da Ovunque sei di Michele Placido (2005), che raddoppia con La scelta nel 2015, anno in cui esce anche L’attesa di Pietro Messina.
Vedremo di leggere i diversi volti di Pirandello visto da tre ottiche diverse: il sicilianissimo Pietro Messina, lo scafatissimo Placido e l’ex nouvellevaguiste Jacques Rivette.
Per parzialità confessa iniziamo proprio da Messina, che è di Caltagirone, città natale, per chi non lo ricordasse di Don Luigi Sturzo e del “famigerato” Ministro Scelba. È anche, e soprattutto, centro importantissimo di cultura ceramica, aduso a produrre da secoli genialità, pazienza creativa, dedizione al lavoro e sacrificio. Dopo un apprendistato con la realizzazione di cortometraggi, per una fortuita, ma opportuna, combinazione astrale, Pietro Messina viene chiamato a dirigere L’attesa un lungometraggio impegnativo che trova il suo uovo nell’opera di Pirandello La vita che ti diedi. Il dramma in tre atti, andato in scena al Teatro Quirino il 12 ottobre 1923, a sua volta trova ispirazione in due racconti: La camera in attesa (1916) e I pensionati della memoria (1914).
La storia originale è il dramma di una madre, cui muore il figlio, assente per sette lunghi anni. Il ricordo, che la madre ha alimentato durante l’assenza del figlio, è stato fissato al momento dell’abbandono. Da quel tempo il figlio è stato in lei vivo, perché essa lo ha nutrito, lo ha fatto vivere della vita che attraverso la fantasia lei gli ha dato una seconda volta dopo la nascita. Per lei il ricordo è stato più vero della realtà che però viene a sconvolgerla con la sua forza con l’improvviso ritorno del figlio. La madre non lo riconosce: ha di fronte un estraneo lontanissimo da quell’immagine, per lei, vivente, rimasta fissata nella sua mente per i sette anni di assenza. Il figlio quasi subito dopo il ritorno muore, ma per la madre è come se fosse morto un estraneo così diverso dal suo vero figlio. Il suo amore materno la induce a continuare l’illusione di sentirlo vivo come lo sentiva nei sette anni della sua lontananza. E questa illusione cerca di alimentare all’arrivo di Lucia, amante del figlio, incinta di lui, nascondendone la morte, sostenendo che è partito e deve ritornare. In questo modo sente il figlio sempre più vicino per la presenza di questa giovane donna che lo ama e ha in grembo un figlio di lui.
Qui a sn la locandina de La vita che ti diedi. A dx alcune immagini del film: in alto Jiuliette Binoche, sotto Pietro Messina.
Nel film di Messina lo schema viene abbastanza rispettato, ma tutta la vicenda è trasportata degnissimamente a un secolo dopo, con una libertà progettuale ineccepibile, dovuta all’impegno dello stesso Pietro Messina, di Giacomo Bendotti, Ilaria Macchia, e Andrea Massara, che curano anche la sceneggiatura. Al Globo d’Oro del 2016 Pietro Messina viene premiato per la “Miglior opera prima”. Questa la motivazione: «Il film è poesia pura, con splendide riprese. Vi è interiorità, vi sono silenzi eloquenti, come nell’abbraccio silenzioso della fine che dice più di mille parole. Grazie alla raffinatezza nel presentare i sentimenti attraverso immagini bellissime, ci sembra chiaro che abbiamo a che fare con un promettente talento del cinema italiano che mette la sua Sicilia in primo piano.»
A questo punto potremmo anche smettere; tagliar corto, almeno, ché tutto quello che d’importante c’era da dire è stato detto e molto meglio di come avremmo potuto dirlo noi. Ma qualcos’altro i nostri pochi lettori vorranno sapere: per loro abbiamo rivisto il film e possiamo, quindi, confermare ampiamente la motivazione del premio: il senso profondo delle due novelle che vanno a coagularsi nel dramma viene utilizzato al meglio da Messina e dai suoi collaboratori; fa fare, adeguatamente, alla storia il salto temporale, la plasma ai giorni nostri ed alla nostra sensibilità, senza scalfire per nulla il nocciolo del racconto, la sua classica drammaticità: che è quella dei nostri giorni, sorella delle nostre, ma ha i ritmi antichi e solenni che ritroviamo grati negli spettacoli arcaici nella culla siciliana del Teatro Greco di Siracusa. Ogni donna è Ecuba, ogni donna è Medea, ogni donna rivive la visione dei classici, che attraverso Pirandello è giunta, religiosamente mantenuta, fino a noi.
Il 2015 è anno di buona e fortunata produzione nazionale e il nostro regista e la sua piccola grande opera scendono nell’arena con competitori agguerriti, che hanno dalla loro spettatori più disponibili: perde – comprensibilmente – il David 2016 ed il Nastro d’argento 2016 a favore di Lo chiamavano Jeeg Robot, mentre a Venezia 2015 vince – incomprensibilmente – il film antagonista, il venezuelano Ti guardo di Lorenzo Vigas (anche questa opera prima).
Alcune immagini del film: a sn l’attrice Lou de Laâge, a dx Jiulette Binoche
Quelli che… direbbero che il film è lento: è vero, l’azione frenetica è bandita, non ci sono guerriglieri, aerei che si schiantano contro grattacieli, sbarchi nelle cento normandie della nostra storia, ma ci sono anime tormentate e dolori cui si cerca di evadere in qualche modo, e nessuno sa qual è il modo giusto per uscire dal proprio dolore. Neanche noi abbiamo fretta di uscire dal cinema per andare a mangiare la pizza; abbiamo tutto il tempo del mondo per capire e misurarci; e in questo ci aiuta la musica, la colonna sonora del film, opera della violinista Alma Napolitano, di Marco Mangari e dello stesso Pietro Messina. Ci sono i luoghi che conosciamo bene, piccole crosticine staccatesi delle nostre cicatrici antiche: i luoghi sono quelli della Sicilia sud-occidentale: dal territorio di Ragusa in cui si trova il bello specchio d’acqua (il lago artificiale Santa Rosalia), a Chiaromonte Gulfi in cui si trova la bellissima villa Fegotto in cui abita Anna (Juliette Binoche), la madre di Giuseppe, il ragazzo che doveva esserci ad aspettare Jeanne (Lou de Laâge); a Caltagirone con la cerimonia notturna del sabato santo e la scenografica scala di Santa Maria del Monte, gradinata lunga 142 scalini, e dritta come una rampa missilistica, che congiunge la città bassa alla città alta, illuminata da centinaia di lumini; alla Villa Romana del Casale a Piazza Armerina; alla visuale dell’Etna dall’aeroporto di Catania, ai tornanti della strada che s’inerpica sul vulcano, nero e nebbioso, metafora del lutto di una madre e dello sconsolato dolore di una donna per il suo uomo.
L’attesa è striata di colori e di luce viva quasi bianca, e piegata da bui profondi e senza speranza, da neri assoluti, caravaggeschi, da cui emergono sembianze, ricordi, brandelli di memoria. E poi c’è il colore dell’acqua e del cibo, dei muri e della terra… colori e dolori senza fine in un universo che conosce il dolore e che sa rinchiuderlo in coloratissimi vasi di terracotta.
Gli interpreti: Juliette Binoche, disassata in modo originale per il dolore e per merito di un regista che sa quello che vuole, è una perfetta, moderna Anna, la madre di Giuseppe (Giovanni Anzaldo, appena intravisto), amato da Jeanne, nei cui panni è, l’inappuntabile versatile Lou de Laâge; all’ottimo Giorgio Colangeli è affidato il ruolo del factotum Pietro, appena un cammeo, sufficiente però a mostrare tutta la sua bravura e la sua plasmabilità a ruoli oscuri equivoci e complessi. Nel cast anche Domenico Diele, Giorgio; Corinna Lo Castro, Rosa; Antonio Folletto, Paolo.
Note
[1] Data la lunghezza dell’articolo, riportiamo qui soltanto la prima prospettiva, quella riguardante Pietro Messina. Rimandiamo quindi al prossimo articolo le prospettive di Placido e di Jacques Rivette.