di Lorenza Del Tosto
Sotto un cielo grigio, tra strade bagnate dalla pioggia notturna, il Berlinale Palast sonnecchia, rosso e nero, nel silenzio del primo mattino: giovani inservienti sorridono, scale vellutate assorbono i rumori dei passi e luci da locale notturno avvolgono la sala stampa. Sembra che Marlene Dietrich debba apparire, da un momento all’altro, ad ogni angolo di corridoio.
Ma è Tatiana Huezo, regista salvadoregna e messicana di adozione, alta e forte, e un poco frastornata, ad affacciarsi nel salotto delle interviste al terzo piano, blusa e gonna nere eleganti, pelle scura, capelli neri come gli occhi penetranti dietro i grandi occhiali scuri. Ha il viso stanco ma un’energia emana da lei come un vortice che si va formando e presto si alzerà e ti trascinerà in una spira di emozioni come quelle che i suoi film scatenano nel cuore.
Qualcuno la riconosce e le va incontro e, stringendole le mani, le dice di aver appena visto il suo El Eco alla proiezione stampa e di esserne rimasto incantato. Tutti ne sono usciti incantati. È così intensa l’emozione dell’uomo che non si può dubitare della sua sincerità, eppure Tatiana Huezo lo guarda incerta, lo prega di ripetere quanto le ha appena detto. Il suo corpo sembra liberarsi di una tensione nascosta, si porta una mano al petto, sgrana gli occhi commossa. “Oh che sollievo!” Mormora. Come chi viene informato del ritrovamento insperato di ciò che credeva perduto per sempre.
“È il mio primo film luminoso, avevo bisogno di luce dopo tanta oscurità ma non sapevo come avrebbe reagito il pubblico.” Ha finito il film tre settimane fa in tempo per consegnarlo alla Berlinale. Uno sprint finale che l’ha lasciata esausta dopo 6 anni di lavoro, contrassegnati da mille incertezze, crisi e dubbi. A mano a mano che trascorreranno le ore la reazione entusiasta del pubblico e della critica continuerà a confortarla, ad accenderle il viso sempre un poco duro e a stendere una carezza sulle sue spalle stanche.
Il berlinale Palast
Tatiana Huezo, da quindici anni, con film e documentari, racconta il Messico. L’anima profonda di un paese bello e doloroso, pieno di ferite e di contraddizioni. Noi l’abbiamo conosciuta a Cannes, qualche anno fa, dove ha ricevuto la menzione speciale della giuria per Noche de Fuego suo primo e, per ora, unico film di finzione. Alla Berlinale, che offre grande spazio ai documentari, il suo nome è conosciuto e un giornalista ci confida che il suo Tempestad , presentato tempo fa nella sezione Forum, è l’opera più bella che lui abbia mai visto a Berlino. Altrove purtroppo mai o mal distribuita.
Ma a Tatiana Huezo in questa mattina silenziosa, nell’eleganza di pannelli rossi e neri, sembra importare poco della scarsa diffusione delle sue opere, a lei interessa continuare a sperimentare. El Eco, che racconta un anno di vita di un gruppo di bambini in un villaggio dello stato di Puebla, è stato un salto nel vuoto. Non è uno sguardo romantico sulla vita contadina. Nessuna romanticheria. Variazioni climatiche estreme segnano le esistenze con difficoltà enormi. “Volevo catturare la bellezza delle piccole cose quotidiane. Parlare dell’infanzia, momento magico e brevissimo della vita in cui tutto è gioco, e dell’infanzia contadina perché nelle campagne i bambini diventano adulti molto presto. Volevo parlare del Messico da un’altra angolazione. Mi ha conquistato la profonda bontà di questa gente. La capacità di avere cura dell’altro che in molti abbiamo perso. E ho cercato il modo più adatto per farlo.”
“E qual era questo modo?” le chiede il giornalista britannico dai cui occhi emana ammirazione sconfinata “Non riesco a trovare una definizione: non è documentario, non è finzione. È pura magia.”
“La messa in scena è più audace. Non ci sono voci fuori campo, né interviste. Per la prima volta ho girato senza un copione. Volevo che la storia si costruisse da sola, adattandosi alle necessità dei protagonisti. Da anni i miei film parlano di violenza, sequestri, narcotraffico, vulnerabilità estrema delle donne. Volevo catturare la luce e la speranza, attraverso la sorpresa negli occhi dei bambini che scoprono il mondo.”
Il povero giornalista non vorrebbe contraddirla, lui ha sentito certo la bellezza e la speranza, ma anche qualcos’altro che somiglia alla tristezza.
“Certo c’è anche una malinconia. Gli occhi dei bambini sembrano vedere la minaccia che incombe sempre: il saccheggio delle risorse da parte delle grandi multinazionali, la povertà e la perdita.“
Alcune immagini del film El Eco, 2023 di Tatiana Huezo
Eppure è vero che El Eco va oltre e cattura il sogno sempre possibile anche in un villaggio poverissimo. Coglie la dignità e la forza di fronte alle avversità. Durante la carestia gli animali muoiono davanti agli occhi dei bambini, l’acqua diventa imbevibile eppure di ogni cosa, con un senso profondissimo della comunità, si deve avere cura. “Potrebbe essere l’ultimo villaggio al mondo o il primo. Dove si conserva tutto ciò che abbiamo perduto: la cura degli anziani. La cura della terra e degli animali. L’eredità che i figli ricevono dai genitori.”
Per catturare la vita del luogo nella sua purezza e lasciare che la storia si costruisse da sola, una troupe, ridotta all’osso, ha trascorso quattro anni nel villaggio, andando e tornando, prima di iniziare a girare.
“Era importante che ci conoscessero e si fidassero di me. È venuta anche mia figlia di undici anni a condividere la loro vita. Abbiamo costruito una baracca con un bagno. Perché a El Eco nessuna casa ha il bagno. Trovare il villaggio è stata una ricerca lunghissima, ci ha aiutato l’organizzazione delle scuole rurali. Stavo per gettare la spugna, poi nella lista dei villaggi che ancora dovevamo visitare ho letto un nome: El Eco e ho sentito una premonizione. Mi è parso pieno di possibilità. Così ho detto “Andiamo”. Appena arrivata nella scuola ho visto Luzma ( diventerà una delle protagoniste) che all’età di 6 anni insegnava a due gemelli. Nelle scuole rurali ogni bambino insegna agli altri ciò che ha imparato. Ho visto l’impegno con cui spiegava e gli occhioni spalancati dei due alunni e ne sono rimasta incantata. Poi siamo andati a pranzo da una signora che raccontava storie di streghe e di fantasmi. Aveva un modo di parlare che mi ricordava i libri di Juan Rulfo. Tutti a El Eco parlano come Juan Rulfo. (Scrittore messicano autore di due piccoli gioielli il romanzo Pedro Parámo e la raccolta di racconti Il pianura in fiamme).
Le ho chiesto se sapeva dirmi l’origine del nome del villaggio. Non lo sapeva, ma mi ha raccontato che il vento, quando si alza, porta con sé le voci del paese nella pianura e allora bisogna fare molta attenzione a quello che si dice perché tutti potranno sentirlo. Ho capito che avevo trovato quello che cercavo e che la mia ricerca era finita. La signora purtroppo è morta di Covid ma le sue storie, ciò che mi ha raccontato, sono entrate a far parte del film.”
Se pure vi è tristezza nelle cose, la macchina da presa ha un modo di guardarle che le ammanta di poesia.
Il modo in cui la mamma, sposa giovanissima in una società patriarcale, con dolcezza si rivolge alla figlia. “Tu studierai. Mi impegnerò perché tu possa studiare.”
E il padre che dice al bambino “Non togliere il piatto: queste cose le fanno le donne.” Poi il padre parte e sta fuori un mese o due, in cerca di lavoro, nel frattempo la donna si occupa di tutto e il bambino, che in casa l’aiuta, quando il padre torna spontaneamente sparecchia.
“La prima volta che ho sentito il padre dire quella frase mi è andato il sangue alla testa. Poi mi sono detta che dovevo essere solo un’osservatrice.”
Così quando la scena scorre sullo schermo, sentiamo tutto quello che c’è da sentire: l’infinito candore del bimbo che sbadatamente inizia a sparecchiare, l’infinita spontaneità con cui il padre lo rimprovera, ripetendo un’indicazione assimilata da secoli. Come se la macchina da presa cogliesse il momento esatto in cui gli eventi esterni si sedimentano nella vita delle persone e la determinano.
Così è in ogni scena: i bambini nel bosco con gli adulti di notte a proteggere i loro alberi dal furto di legname. La bambina che insegna ai suoi pupazzi disposti in fila davanti a lei. Così nelle magnifiche scene della nonna.
“La donna è sempre molto importante nei suoi film. Ma qui c’è qualcosa di più sottile.” Le sta dicendo ora un giornalista.
“Non me lo ero proposto, è un aspetto che è emerso durante il lavoro. È vero che mi piacciono i personaggi femminili che riescono ad esprimere il loro disagio. Che escono dagli schemi e cercano il loro posto nel mondo. Ma anche in una società profondamente patriarcale come questa, dove gli uomini sono assenti per la maggior parte del tempo perché il lavoro non c’è e devono cercarlo altrove, qualcosa sta cambiando.”
La macchina da presa ha catturato scene insolite.
La donna che la sera a tavola, con tono calmo e pacato, propone al marito: “Perché non ci scambiamo i ruoli? Io vado al lavoro e tu ti occupi dei bambini.” Ricevendo dal marito uno sguardo interdetto.
La realtà non cambia, ma i desideri non sono più repressi.
C’è la giovane Montse, la preferita della regista, che di nascosto impara ad andare a cavallo, cosa proibitissima per le donne, e quando la madre non le consente di partecipare ad una gara, abbandona la famiglia e va a cercare lavoro in città. E c’è Saray la bimba, appassionata di studio, che legge e rilegge i tre poveri libri che ha in casa e per non seguire la sorte dei suoi fratelli, che hanno dovuto lasciare la scuola, va a lavorare con gli animali per comprarsi la divisa e i libri e continuare a studiare.
La macchina da presa cattura la dignità della vecchiaia, accarezza la nonna che fa il bagno nella tinozza: il corpo ossuto, magrissimo, le rughe di una pelle cotta dal sole, con una tale amorevolezza che avremmo voglia di allungare la mano e sfiorare anche noi quel magnifico mucchio di ossa che racchiudono saggezza e meraviglia, tutto il senso della vita. Ci dà voglia di correre dai nostri anziani, per chi ancora li ha, talvolta soli e dimenticati, e avvolgerli dello stesso calore.
“Con la nonna siamo diventate amiche. In Messico c’è un grande tabù sulla nudità e immaginavo che non mi avrebbe permesso di filmarla durante il bagno. Invece mi ha suggerito persino la collocazione migliore per la macchina da presa con la tinozza sotto la finestra.”
Poi la nonna si è ammalata di Covid. Tatiana Huezo era a casa in quel momento. L’hanno chiamata per dirle che la nonna era in fin di vita e se voleva prendere commiato doveva affrettarsi.
“Sembrava che mi aspettasse e dopo tre ore dal mio arrivo è morta.”
Il direttore della fotografia, Ernesto Pardo, in jeans e coda di cavallo, arriva silenzioso nel salottino e, di fronte agli elogi, accenna un sorriso distratto. Sono venti anni che lavorano insieme.
“Ne abbiamo avute di discussioni.” Dice Tatiana Huezo, un poco nervosa, lasciando intendere che lavorare con lei non è una passeggiata, ma lui sornione continua a sorridere senza battere ciglio.
“Quello che amo di Ernesto è che sente quello che vede. Lui guarda con il cuore e così anche nello spettatore succede qualcosa. I bambini lo adoravano. Alla fine non si accorgevano più della macchina da presa, la vedevano come uno di loro. Quando inizia a girare Ernesto scompare. Diventa un fantasma. È questa vicinanza che permette di catturare la purezza delle cose. “
E poi c’è il suono potentissimo del film.
“Il suono sembra entrarti nel cervello, nello stomaco.” Commenta un giornalista “Senti addosso il ruggito del vento…e le streghe che succhiano di notte il sangue dei neonati.”
Tatiana Huezo, il viso stanco, sorride. Il suono è sempre stato per lei un’ossessione. Ancor più doveva esserlo in un villaggio chiamato El Eco. Una sinfonia di pioggia e vento e versi gutturali degli animali. Sentiamo nel suono l’avvicendarsi delle stagioni e la minaccia sottile che, in Messico, è sempre sospesa sulle cose. L’avversità e insieme la forza del mondo contadino che la fronteggia, la dolcezza dietro la ruvidezza apparente.
Questo è forse il segreto, la ricetta magica che il giornalista nella mattina silenziosa cercava. Catturare la poesia e riempirne gli occhi dello spettatore.
“Il mio cinema è un viaggio sensoriale ed emozionale. “Spiega Tatiana Huezo “Estar Esserci è la mia unica ricetta. Non vedo differenza tra documentario e finzione. Il mio desiderio più profondo è sempre lo stesso: essere vicina alla gente e alle cose. È nutrimento per la mia anima e per il mio cinema. Guardare l’altro senza fretta. Entrare nella sua pelle.”
Stesso nutrimento per gli spettatori, stesso desiderio che resta una volta usciti dalla sala: provare ad avere cura di ogni cosa e a estar , esserci nella vita, senza fretta.
E a noi, che di fretta viviamo, per un poco il tempo, qui a Berlino, si è miracolosamente fermato.