Dal 12 gennaio parte su Netflix la serieTV Manakai di Hirokazu Kore’eda, regista ormai conosciuto per i film sulle famiglie a geometria variabile da Maborosi, a Father and son, Affari di Famiglia e Le buone stelle, per dirne solo alcuni. E a cui Il Venerdi di Repubblica del 13/01/23 dedica un’intervista. Fondamenta di tutta la filmografia di Kore’eda, così riporta l’articolo, è stata l’okiya, il luogo dove si studia per diventare geisha, che, in forma ridotta ai minimi termini, è una famiglia senza legami di sangue. Dove le persone si vogliono bene, o si detestano (decisamente meno spesso), perché così sentono e non in ragione di un Dna comune. Manakai, prosegue l’articolo, è la storia di due amiche, Kiyo e Sumire, che lasciano la provincia per entrare nella scuola di Kyoto che, tra un corso di danza (geisha, alla lettera, significa danzatrice), di portamento e di cerimonia del tè le trasformerà in perfette dame di compagnia. Però per quanto Sumire è portata, Kiyo è negata. Quando la badessa laica della casa delle maiko, le giovani aspiranti, la convoca per rispedirla al paesello Kiyo rilancia proponendosi come cuoca. Ed è così che, con mossa degna del cinese Sun-Tzu, rovescia la sua debolezza coreutica nella sua vera forza, ovvero far felici gli altri con strepitosi pasti makanai, di cucina tradizionale. La storia è ricalcata da un manga di Aiko Koyama da un milione e ottocentomila copie (Giappone e Italia hanno in comune la vecchiaia, non i tassi di lettura dei loro abitanti). Riportiamo qui di seguito l’intervista per intero che ci sembra affrontare in modo esauriente le problematiche affrontate da Kore’eda e il possibile legame con la sua autobiografia.
Maborosi, in alto; Father and son, in basso a sn; Affari di famiglia in basso a dx.
Perché un autore così poco tradizionalista decide di affrontare un tema così antico della vostra cultura?
«Un motivo è che si tratta di una comunità stretta a dispetto dell’assenza di legami di sangue. Molte nostre antiche culture, soprattutto quelle che tramandano le arti, attribuiscono scarsa importanza al sangue. Ed è proprio una comunità del genere che potrebbe mostrarci la strada di come vivere in un mondo post-Covid».
Anche qui a salutare la sedicenne Kiyo che parte per Kyoto c’è la nonna e un cugino. Per lei la famiglia classica non esiste proprio?
«Stavolta la responsabilità non è mia, ma dell’autore del libro da cui la serie è tratta».
Queste famiglie così poco convenzionali, che lei racconta meglio di chiunque altro, hanno a che fare con la sua autobiografia?
«Non credo che abbiano a che fare con la mia vita reale. Piuttosto sono stato fortemente influenzato dai drammi televisivi che guardavo da piccolo». (Qui però urge un’integrazione, e si insinua il dubbio che qualcosa, tra algoritmi e traduttori, sia andato lost in translation, a proposito di un altro gran film girato a Tokyo. Dico questo perché Kore-eda è cresciuto in sei in una casa molto piccola, dove talvolta si rifugiava in un armadio per trovare un po’ di privacy. Con un padre sopravvissuto ai campi di prigionia sovietici dopo la cattura in Manciuria, che ha faticato assai a rientrare nella vita da civile, con tanti lavori diversi ma accomunati dalla circostanza di guadagnare poco. Una madre di buona estrazione che alla fine si era adattata a lavorare in uno stabilimento di riciclaggio dei rifiuti e poi in una fabbrica di dolciumi. In casa era lei l’appassionata di film, in particolare quelli con Ingrid Bergman, Joan Fontaine e Vivien Leigh, ma che più che regista avrebbe visto meglio il figlio come dipendente pubblico, «più sicuro». Oltre a un nonno e due sorelle più grandi, in una conformazione molto simile a quella di Un affare di famiglia).
In Un affare di famiglia, con cui ha vinto Cannes, una famiglia scalcinatissima di fatto adotta una bambina che trova per strada e le vuol bene come se fosse propria. In Little Sister, all’indomani del funerale del padre, una ragazzina viene accolta dalle tre sorellastre come se fossero sempre vissute insieme. Le parentele biologiche sono sopravvalutati?
«Sì, ne sono convinto. Il problema è che, sia legalmente che socialmente, il Giappone è ancora bloccato in una situazione in cui i non consanguinei e le unioni tra persone dello stesso sesso non sono trattati nello stesso modo dei rapporti tradizionali».
Personalmente mi sono innamorato del suo cinema con Father and son dove due famiglie scoprono, quando i rispettivi figli hanno ormai sei anni, che sono stati scambiati in culla. Qual è, per lei, l’ambiente ideale in cui i figli dovrebbero crescere?
«I bambini hanno bisogno di una persona o di un luogo, sia immaginari o reali, che costituiscano per loro un posto sicuro, un rifugio».
Anche in Broker la mamma che abbandona il bimbo poi fa di tutto per salvarlo. E quelli che volevano venderlo alla fine si redimono. Sembra che il rapporto degli adulti con l’infanzia sia per lei l’unica forza capace di salvare l’umanità: è così?
«Non so se è l’unica. Di certo non ha niente a che fare con quel che c’è scritto sulla carta d’identità. Per quanto mi riguarda la perdita di un produttore che amavo come un padre è diventata, in retrospettiva, un’opportunità di crescita. Ho anche cominciato a pensare di provare a essere una figura paterna per quelli che lavorano con me, anche se in modi diversi dal mio vero padre. Passare il testimone che ho ricevuto al prossimo “padre” o “madre” è un modo per crescere».
Le famiglie, per come le concepisce, sono strutture che non tollerano vuoti. «Mi piacciono le storie di quelle in cui manca qualche membro. Perché spunta sempre qualcuno pronto a prendere il suo posto». Che si chiami papà, mamma, genitore 1 o 2 o in altri cento modi più sostanziali e meno burocratici non fa troppa differenza. La nutrita pattuglia governativa di ultras del Family Day che riconoscono solo quella “tradizionale”, all’interno della quale è tradizione che avvenga oltre i tre quarti dei femminicidi, potrebbe sfidare le proprie certezze regalandosi la filmografia completa di Kore-eda. Impeccabilmente sottotitolata.