di Letizia Piredda
Una semplice vacanza estiva di un padre con la figlia undicenne in Turchia alla fine degli anni ’90. Ma qualcosa da subito ci mette in allerta avvisandoci che il racconto sarà tutt’altro che lineare: la storia infatti inizia con l’inserzione di tanti brevi video, girati da Sophie con la cinepresa del padre.
La perfetta padronanza del mezzo filmico e l’uso anomalo di nuove tecniche come il found-footage[1] producono un effetto di grande potenza.
Gioca con il tempo, la bravissima regista esordiente, e con i tempi, riuscendo a creare una molteplicità di sguardi che provocano una sorta di corto circuito al suo interno.
E’ come se quello che vediamo, il presente, con i filmati inseriti, il passato prossimo, diventasse mentre lo vediamo ricordo, e quindi passato remoto (lo sguardo di Sophie adulta). Richiama in qualche modo il Gus Van Sant di Paranoid Park: lì però è più un collage spaziale quello che si crea, qui invece un collage di sguardi che si sovrappongono e si stratificano.
Alcune scene del film
E il ricordo, con il suo velo nostalgico a sua volta si trasforma e diventa indagine: come se dietro ci fosse una ricerca affannosa, disperata, di un indizio, di un segno, di un segreto nascosto nelle pieghe dei fotogrammi, qualcosa che può aiutare Sophie a comprendere un risvolto della personalità del padre che, ci sembra di capire, non c’è più. Qualcosa di simile a quello che avviene in Blow up, quando il fotografo scopre un assassinio assolutamente insospettato passando al setaccio le sue riprese, e come, molto più di recente avviene in The Fabelmans, dove il giovane Spielberg scopre qualcosa presente nella vita familiare, ma di cui nessuno si è ancora accorto.
Ma del tempo c’è anche la paura: nella storia si contrappongono il tempo abbreviato del padre e il tempo spalancato di Sophie, che sottolineano la titubanza silenziosa del padre e i suoi momenti di sconforto e l’apertura totale della figlia al nuovo e alle nuove esperienze. Questo aspetto viene sottolineato dalla musica che, soprattutto nella parte finale crea una forte tensione, una pressione che aumenta con l’avvicinarsi del distacco, della separazione tra i due. Non a caso i brani scelti sono Under Pressure e Loosing My Religion.
Il talento dei due attori costituisce un altro tassello fondamentale per la riuscita del film: Paul Mescal e Frankie Corio, riescono a creare un’intensa complicità, insieme scanzonata e tenera: lui con una miriade di sorrisi tristi, un certo impaccio motorio, un calore innato, lei con la carica vitale di un’adolescente, una disinvoltura disarmante e una mobilità emotiva che le consente di entrare e uscire con rapidità da uno stato d’animo all’altro.
Per concludere: non mi capita spesso di restare alla fine di un film con un’emozione così potente, incontenibile, e indicibile insieme. Ho avuto proprio la sensazione di non avere parole adeguate per cogliere tutte le variabili implicite e la forza emotiva con cui sono veicolate.
Note
[1] Il found footage
Found footage (filmato ritrovato), in ambito cinematografico, è un termine che si usa per descrivere film realizzati parzialmente o interamente con un metraggio preesistente, successivamente riassemblato in un nuovo contesto. Si tratta di una pratica di prelievo e recupero, un cinema che parte dai nastri di celluloide impressionata per rimodellarli in una nuova forma. Non va confuso con il documentario o con i materiali di repertorio. Il termine ammicca all’object trouvé della storia dell’arte.
Bellissima recensione. Soprattutto con le idee sul passato che diventa con i filmati presente, il tempo abbreviato del padre ed il tempo spalancato di Sophie, la mancanza di scoperta di una personalità del padre, le similitudini con le fotografie di Blow up, ed infine l’analisi delle emozioni che il film dà.