Hiroshima mon amour, 1959 di Alain Resnais

di Letizia Piredda

Scrivere una recensione di “Hiroshima mon amour” di questi tempi, in cui imperversano le serie TV di ogni tipo, e in un momento di particolare splendore per il cinema, tra i film di Venezia e quelli della Festa del Cinema di Roma, oltre a quelli dei tanti Festival minori, è veramente una cosa in controtendenza. Mi sembra importante, quindi, spiegare cosa mi ha portato a scrivere su questo film così arduo e difficile da comprendere. Anzitutto il libro di Alberto Crespi[1], che riporta la definizione data da Rohmer, un esponente della Nouvelle Vague, sul film: “un film cubista” per la frammentazione che crea a livello di trama, di tempo e di spazio. Indirettamente la scomparsa di Jean Luc Godard che ha suscitato una riflessione generale sul cinema della Nouvelle Vague, e in particolare sulla sua opera prima Fino all’ultimo respiro, che esce l’anno successivo nel 1960. . Infine il bellissimo e recente Webinar di Andrea Chimento su Longtake.

                                                                                       “La grande contraddizione consiste nel fatto
che abbiamo il dovere e la volontà di ricordarci
                                                                                     ma siamo obbligati a dimenticare per vivere”
                                                                                                             Alain Resnais

Due corpi in uno intrecciati in un abbraccio amoroso si ricoprono di una polvere fitta: è la cenere dei corpi di Hiroshima? O è la cenere del divenire, per cui ogni amore nel momento in cui nasce, porta già con sé inevitabilmente i germi dell’oblio e della distruzione?
Così inizia Hiroshima mon amour il film della rottura, della discontinuità, che ha operato una rivoluzione stilistica, senza precedenti, nel cinema degli anni ’60.

La trama non esiste: al suo posto c’è un lento emergere di ricordi, attraverso una voce off, quella di Emmanuelle Riva, un flusso di memoria soggettiva ininterrotto dove passato e presente si mescolano senza soluzione di continuità, e dove i luoghi e i suoni si staccano dal contesto a cui appartengono, formando molteplici asincronismi.

Lei parla di Nevers, ma noi vediamo le immagini di Hiroshima; lei rievoca le immagini di Nevers, ma noi sentiamo i suoni di Hiroshima. Lei rievoca il suo primo amore tedesco, rivolgendosi al suo amante giapponese, e chiamandolo con il suo nome.

Nevers e Hiroshima, il trauma individuale e il trauma collettivo

Passato e presente, Nevers e Hiroshima sono compresenti in un’unica continuità, resa sul piano stilistico da stacchi improvvisi, in sostituzione delle dissolvenze incrociate.
Il passato si attualizza creando un dialogo con il presente, che diventa soggetto del passato: il grido di lei proviene dal passato, ma invade angosciosamente il presente: l’uomo che ha appena incontrato diventa il suo amante morto in guerra.
Nevers e Hiroshima, due traumi: individuale, quello di lei, universale, quello di lui, si incontrano in un tempo altro, in una memoria-mondo che si protrae fino al nostro presente. In un percorso costellato di ossimori visivi e narrativi, che iniziano già nel titolo del film e si ripetono fino allo spasimo:

Non hai visto niente, a Hiroshima. Niente.

Ho visto tutto. Tutto.

Emmanuelle Riva si perderà in uno scenario in rovina, avanzerà controcorrente come al rallentatore in un continuo oscillare tra il ricordo e l’oblio, tra il dolore del ricordo, la memoria fa sanguinare ci dirà Wenders in Falso movimento,1975 e la calma imperturbabile dell’oblio, che può cessare soltanto quando si scopre che il vero dolore è la consapevolezza che prima o poi si comincerà a dimenticare:

Come te, io conosco l’oblio

No, tu non sai dimenticare

Come te sono dotata di memoria e conosco l’oblio

No tu non sai ricordare

C’è il tentativo, impossibile, peraltro, di restare nell’istante passato e presente e il rifiuto che venga ricoperto da un’altra onda del tempo.
E ancora:
Tu mi uccidi, tu mi fai del bene
dice lei, esprimendo così la contraddizione del tempo e dell’assoluto dell’amore.

Approfittando della notte la donna ha rubato tempo al tempo e sembra esserne sfuggita: anche le immagini sembrano seguire la stessa intenzione: non vogliono cedere il posto, vogliono restare. Ma il tempo irrompe di nuovo quando lui la raggiunge nella sua stanza.
Il film si chiude su un processo di identificazione reciproca, reso possibile dall’incontro e dalla rivisitazione/rielaborazione dei due traumi:

“Hiroshima…è il tuo nome” (dice la donna)
“Il tuo è Nevers…Nevers in Francia” (dice l’uomo)
Finalmente lui e lei hanno un nome.

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Letizia Piredda ha studiato e vive a Roma, dove si è laureata in Filosofia. Da diversi anni frequenta corsi monografici di analisi di film e corsi di critica cinematografica. In parallelo ha iniziato a scrivere di cinema su Blog amatoriali.
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