a cura di Letizia Piredda
Le storie che stanno dietro a questo grandissimo film non si contano più. Non sarà un caso che nel 2009 un famoso critico[1]abbia scritto un libro sulla storia de La dolce vita. E il fatto che Alberto Crespi lo abbia inserito come 2° percorso nella sua analisi quantistica della storia del cinema[2] ci dà la misura dell’importanza cruciale di questo film definito dall’autore un raro caso di film-mondo. Due le date che segnano l’epopea di questo film: il 16 marzo 1959, nel teatro 14 di Cinecittà viene dato il primo ciak di La dolce vita. La scena con la quale si apre la lunga entusiasmante lavorazione del film è quella in cui Anita Ekberg vestita da prete sale le scale all’interno della cupola di S.Pietro ricostruita in teatro dal bravissimo scenografo e costumista Piero Gherardi. L’altra data è il 5 febbraio 1960: sera dell’anteprima al Capitol di Milano, un cinema che non esiste più, a due passi dal Teatro alla Scala. Ma come mai un film romano debutta a Milano? La risposta è semplice, perché il produttore principale è Angelo Rizzoli, editore milanese. Sembra che quella sera sia capitato di tutto: fischi, proteste in un crescendo parossistico che diventano veri e propri insulti nella scena dello spogliarello. La Milano bene si rivolta di fronte al ritratto impietoso contenuto nel film. Il giorno dopo Fellini e Fracassi vedono un movimento di folla davanti al Capitol: la folla ha letteralmente sfondato le porte di cristallo del cinema per l’ansia di vedere il film prima che lo sequestrino. L’incasso è stratosferico sia negli Usa che in Italia. A tutt’oggi sembra sia il sesto film più visto in assoluto: l’espressione dolce vita diventa proverbiale in molte lingue. Fellini che ha già vinto due Oscar, si aggiudica con questo film la Palma d’oro, e diventa il regista più famoso del mondo.
Alcune immagini del film
Ma di che parla questo film? Sembra che parli del mondo che circonda lo spettatore in quello scorcio di fine/inizio decennio. Ma con una modalità innovativa rivoluzionaria. Riporto testualmente dal libro: “Basta quel formidabile stacco di montaggio, il passaggio dal totale di Piazza San Pietro con le campane a stormo, al primo piano della maschera di una divinità orientale che si rivela essere una ballerina in un dancing,… basterebbe quell’idea così cinematografica, dal generale al particolare, dal sacro al profano, dal giorno alla notte per capire che siamo all’interno di una trasfigurazione onirica della realtà…Il contesto nel quale irrompe è quello di un cinema che sta cambiando, che ha acquisito consapevolezza della propria classicità e tenta di andare oltre, di trovare nuove forme di racconto”. Ancora riporto testualmente: “Il miracolo de La dolce vita è essere insieme poesia e cronaca. Il documento non basta più- verissimo- ma è sempre lì”. Fellini prende dai rotocalchi e dalle foto dei “paparazzi” (questo il neologismo con cui saranno chiamati da La dolce vita in poi), si attacca alla realtà e la ricrea. Come ricrea via Veneto a Cinecittà, quando realizza che l’assalto del pubblico è tale da rendere impensabile di girare nella vera via Veneto. Verrà ricreata in piano, per rendere più agevole l’utilizzo dei carrelli, ma senza nulla togliere al fascino che la caratterizza. E come ricrea tutte le voci, i suoni , i rumori avvalendosi della bravura istrionica di Elio Pandolfi a cui si affida per completare il doppiaggio del film. E a Kezich che gli chiede se ci troviamo di fronte alla fine o alla palingenesi del Neorealismo, Fellini risponde: “se uno torna dalla luna, fosse pure un cretino qualcosa dirà; ma se ci si muove in una realtà appiattita, normalizzata, allora bisogna essere poeti…”.
Ma ritornando un attimo indietro, per la storia de La dolce vita, il Festival di Cannes è importante non tanto per il premio in sé ma per come è stato vinto. Insieme a Fellini ci sono nomi altisonanti: Bergman, Bunuel, Antonioni, Minnelli. Ma la fortuna di Fellini è che il presidente della giuria è Georges Simenon: tra i due esploderà un amore artistico a distanza, che diventerà una grande amicizia e che viene documentato in un bellissimo libretto che contiene il loro carteggio[3]. Simenon vede il film, rimane fologorato, ma realizza di avere tutta la giuria contro, compreso il rappresentante italiano Diego Fabbri. Con un lavoro certosino riesce a lavorarsi un po’ per volta i giurati, portandoli dalla sua parte, un po’ come Henry Fonda nel film La parola ai giurati di Sidney Lumet,1957. Il giorno del verdetto Simenon legge il responso: “Non desiderando diminuire l’importanza dei riconoscimenti maggiori attraverso la moltiplicazione dei premi, la giuria ha rinunciato, all’unanimità, a coronare opere magistrali come quelle di Ingmar Bergman (Svezia),e di Luis Bunuel (Messico), a cui rende omaggio. La Palma d’oro va a Federico Fellini, il premio è assegnato all’unanimità.” L’amicizia tra Fellini e Simenon proseguirà, insieme alla dimostrazione di una stima reciproca. “Quando inizio un romanzo- dice Simenon- non so mai come andrà a finire…” E Fellini: “Neanch’io so mai come finirà un mio film. Guardo le persone, che cantano nella mia testa…Prendo appunti, faccio molte foto e prometto a tutti Lei sarà nel mio film. Di qui la leggenda che Fellini è un bugiardo! Non posso mica prenderli tutti…”.
Bibliografia
[1] Tullio Kezich. Noi che abbiamo fatto La dolce vita. Sellerio, 2009
[2]Alberto Crespi. Short cuts. Gius. Laterza & Figli, 2022
[3] Carissimo Simenon- Mon cher Fellini, Adelphi, 1998