Riflessioni su Bertolucci e cattivi discepoli
di Tano Pirrone
In genere non pubblichiamo due articoli su uno stesso argomento o due recensioni sullo stesso film, ma c’è sempre l’eccezione che conferma la regola: e questa volta, a seguito della scomparsa di Jean-Luis Trintignant, dopo la bella recensione di Pino Moroni su Il conformista di Bertolucci, pubblichiamo questo articolo di Tano Pirrone, molto denso, centrato sul conformismo sì ma in relazione al rapporto, sempre controverso, tra opera letteraria e opera cinematografica. Saranno i lettori a stabilire punti di convergenza o di divergenza tra i due articoli.
la Redazione
«Tu che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?»
(La biblioteca di Babele, Jorge Luis Borges)
C’è un certo inaspettato conformismo nel confrontarsi con film complessi dagli intricati metatesti, dai doppi o tripli piani di lettura, densi di conflitti interni: fra l’opera letteraria che a monte sta e l’opera cinematografica (conflitti inevitabili, necessari, anzi); fra l’autore del testo e l’autore della fonte scritta del film; la sceneggiatura e le spesso tormentate variazioni in corso d’opera; fra i personaggi del libro, che come tutti i personaggi dei romanzi – Pirandello docet! – finiscono per avere una loro vita autonoma, loro esigenze, qualche volta antagoniste, altre volte non chiare o mistificate, fra i luoghi e i tempi in cui il romanziere ha collocato la storia nel suo evolversi fantastico e i luoghi e i tempi il cui il regista ha deciso di far muovere la “sua” opera, figlia, nipote, comunque parente stretta di quella stampata, ma autonoma, nuova creatura che non deve dare conto a nessuno, neanche ai suoi nuovi autori, neanche, naturalmente ai più o meno pazienti, paganti fruitori.
L’opera d’arte appartiene prima di tutto a sé stessa, perché tutto ha fatto per poter nascere, per farsi partorire, spesso con dolore. Un atto, che è al contempo il massimo grado della dipendenza (nascere da…) e il massimo grado dell’autonomia (nascere per…): il formarsi per eventi più o meno casuali, voluti, mediati, sfuggiti alla volontà e al controllo. L’opera partorita è inizio e fine di sé stessa, il cordone ombelicale viene tagliato (è l’ultimo ciak!) ed essa è pronta per andare nel mondo a raccontare le sue storie. Non “la storia”, ma una storia per ognuno dei suoi fruitori ed una storia nuova per ogni visione: l’oggetto sgravato è lì, come sospeso nello spazio, sconosciuto solido dalle incalcolabili facce, uno per ogni visione, leggibilissimo e inavvicinabile al contempo. Succede di vedere film a distanza di tempo (o rileggere libri, o rivedere luoghi, persone od opere d’arte), e, sempre, ogni volta, trovarvi, con sorpresa, cose che non si erano viste, piccole cose comunque legate a catena stretta coi luoghi coi tempi coi personaggi con le donne e gli uomini che hanno lavorato insieme per fare quel film e non altri, facendo quel film e innumerevoli altri, al contempo.
C’è un certo conformismo “vizioso” nel confrontarsi con film creati decenni prima, in epoche diverse, da artisti che non ci sono più, oggetto di venerazione e di studio; c’è un certo conformismo di maniera, che trova nel male oscuro che spinge ineluttabilmente ad essere à la page, in prima fila sempre con tutto ciò che va di moda, urgente, proveniente dall’ultima frontiera della Revisione, dall’improsciugabile palude di continue, estenuate, eternamente rinnovate, piccole, insignificanti, nouvelles vagues. Da una lontana incompresa Fortezza Bastiani s’importano linguaggi, modi e modelli; otri ricolmi di fiele e lunghissimi rotoli con incise condanne a morte, esili, cancellazioni, abbattimenti, punizioni corporali, rigetti, umiliazioni, gogne, bacchettate, ceci di lontane stagioni per ginocchi da tormentare negli angoli bui dei carceri, delle sacrestie, delle case.
C’è un conformismo malato, che è questa premura di buttar giù le statue e mettere fantocci raffazzonati, figli di lividi puritanesimi sempre in movimento alla ricerca di peccati, violenze, mancanze, ingiustizie, tutti figli di quel memento: timshel[1] – Tu puoi – che i puritani hanno scordato, ma che li richiama ogni giorno alla loro sacrale limitatezza, alla loro finitezza, alle transigenze, ai perdoni, alle giuste collocazioni nei tempi, alle evoluzioni lente e dolorose, ai cammini sfiancanti verso mete spesso ignote seppur forse sognate.
Dall’alto a sn: la scritta in ebraico “tu puoi”; Ultimo tango a Parigi,1972
Dall’alto a dx: Prima della Rivoluzione, 1964; La strategia del ragno, 1970
C’è un conformismo inadeguato a dare risposte, perché le Verità stanno in luoghi lontani dove solo i poveri dannati – eterni dannati navigatori ulissi – possono andare, sacrificando vite, affetti, ricchezze ed onori. Ma il conformista è instancabile, pedissequo, ha poche idee ma molte parole, perplime e non tentenna, persegue, annusa le piste, consuma i calzari e sente il sangue da lontano, le macchie di sudore, di sperma, di sangue, lo fanno innalzare alla gloria del suo dio, lo rendono giovannadarco, novello risorgente soldato dell’ultimo cristo qualunque, in nome della sua amata profonda sorgiva di disprezzo per l’essere umano, del profondo amaro disprezzo per la sua fallibilità, per il suo amore del conoscere e della sua inclinazione parallela e insopprimibile all’errore.
C’è un conformismo di scuola – nova schola – nel leggere il film di Bertolucci[2] e la sua fonte moraviana: un immarcescibile conformismo di genere, trascurato e irato (già di suo) su costumi e inclinazioni, che fornisce chiavi di lettura disappannate e a forte diottria. Leggere i rapporti fra la coppia iper-borghese Marcello & Giulia, uniti solo in chiave sessuale è, per l’appunto, adeguamento, conformismo.
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Il film (Il conformista) per dichiarazione dello stesso autore[4], non riguarda tanto il fascismo, quanto la borghesia, o, se si vuole, è un film sul fascismo come malattia della borghesia. Nel film non c’è un’analisi ortodossa (economica e sociale) del fascismo. Bertolucci si limita a un’analisi psicologica, mostrando un borghese normale, che man mano che lo spettatore conosce meglio, si rivela un mostro.
In questo, Bertolucci ha “rispettato” lo schema del romanzo moraviano, ma ne ha volutamente “tradito” lo spirito, “stravolto” il senso e “mutata la prospettiva” in uno dei rapporti più fecondi tra film e opera letteraria che si siano avuti nel nostro cinema, ottenendo eccellenti risultati. Per diverse ragioni (l’estraneità diretta, vitale al periodo del fascismo) Bertolucci “riduce” la valenza politica, innalzando il significato poetico, certamente più denso di quello del testo letterario. Dice la verità, quindi Bertolucci, quando afferma che il suo è più un film sulla sessualità e sulla borghesia, che non un film sul fascismo storico. Da esso ricava, piuttosto, quanto può ancora essere attuale, il marcio, cioè, che sopravvive anche ai nostri giorni: il conformismo come malattia contemporanea. In questa operazione diventano essenziali la fotografia, in capo a Vittorio Storaro, e il montaggio affidato all’anarchica capacità di lettura e di trasposizione di Franco Arcalli.
L’uso del flashback che si apre a ventaglio e continua ad unire situazioni a situazioni che non obbediscono a nessuna cronologia permette a Bertolucci di far vivere lo spettatore, in prima persona, simultaneamente in più luoghi.
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Dopo l’avvio, appena ventenne, alla scuola pasoliniana con La commare secca, brillantemente eseguito, e il successivo Prima della rivoluzione (ignorato in Italia, ma giustamente premiato a Cannes 1964, Prix de la Nouvelle Critique, ex aequo con Vida Secas; Prix de l’Association Internationale de la Jeunesse; e al New York Film Festival 1964 come miglior film, e oggi giustamente apprezzato), ne La strategia del ragno Bertolucci compie l’impresa di tornare a modo suo nella Storia e nella narrazione della Resistenza attraverso una nuvolaglia melodrammatica (siamo o non siamo in Emilia?) – mette a nudo contraddizioni storiche spaventose, perfettamente descritte nella famosa orazione funebre che Athos Mariani pronuncia davanti ai suoi amici e compagni[5]; ma La strategia del ragno è anche il luogo in cui il giovane regista cerca di fare i conti – tramite il racconto di Borges[6] che sta alla base della sceneggiatura del film – con la figura del proprio padre Emilio. La contraddizione continua nel film che s’intreccia con la storia dell’eroe/traditore Athos Magnani: Il conformista, in cui il melodramma cede alle canzonette del Trio Lescano e l’agnizione finale si trasforma in un lento contradditorio mutamento di sé che si annoda per adattarsi al mutevole formarsi della Storia alla storia di un uomo alla ricerca di una conformità impossibile.
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Tutta la cultura occidentale negli anni sessanta dello scorso secolo tese anche ruvidamente alla liberazione degli schemi relazionali imperanti e trascinò la protesta giovanile dai teatri di guerra del Vietnam ai sedili posteriori delle ‘500.
La liberazione da tormentose prigionie comportamentali portò alla consapevole disponibilità dell’interezza del proprio essere, a partire dal proprio corpo; all’acquisizione che la libertà di disporre è anche libertà consapevole di sbagliare e di affrontare responsabilmente le conseguenze. Ficcare a forza il film idiotamente bruciato dai bravi delle istituzioni sul falò del perbenismo cattolico come oltraggio al pudore, per un intuìto atto sessuale “fuori” dalle loro norme, come parte integrante del processo di smantellamento di molti tabù, a mio modesto parere è atto improprio e non dovuto. Quel film, L’ultimo tango a Parigi, è la storia di un uomo sceso per consunzione di sé e per l’incapacità caratteriale e culturale a reggere il dolore della morte della moglie per suicidio alle soglie più basse dell’esistenza e della dignità, negli spazi della disperazione e del disprezzo di sé e degli altri. Ma narra anche la possibilità di salvezza che ognuno di noi ha, fino all’ultimo istante della propria vita, la capacità di comprendere e riscattarsi. Lo capirono allora benissimo gli ambienti marginali della chiesa del silenzio, che operavano con umiltà e fatica a fianco degli ultimi, laddove non giunge più voce umana, dove il silenzio, appunto, si fa totale e permette ad ognuno di abitarvi e rivivere. È, come ha indelebilmente scritto Brunetta[6]: «…la storia di un viaggio di conoscenza e scoperta di sé, realizzato estremisticamente all’interno di quattro mura di una stanza e senza quasi appiglio simbolico degli oggetti. […] per l’uomo, l’itinerario assume il valore di esperienza decisiva e totale. Per Janne, in realtà, non c’è alcun rischio e alcuna posta in gioco […]».
Indipendentemente da ogni giudizio critico bisogna riconoscere al film e a Bertolucci di aver saputo toccare con ferocia il nervo scoperto della moralità italiana, erta inattaccabile sulla base impastata di doppiezza e ipocrisia. Toccò la ferita e la squarciò attirandosi le ira furibonde del Pudibondo Potere: è stato l’unico film proibito e bruciato vivo; l’autore privato dei diritti civili per cinque anni.
L’occasione del revival del cinema di Bernardo Bertolucci causato dalla morte di Jean-Luis Trintignant ci ha permesso di tirare fuori dagli scaffali i dvd di tutte le sue opere e rivederle con attenzione, apprezzarne la precoce qualità, la grande capacità di mescolare al racconto i suoi ricordi indipendentemente dal contesto, di aver saputo compiere quel salto che lo ha portato fuori dall’orbita regionale nel più ampio mercato mondiale del cinema di massa, ma di qualità altissima. Proprio Il conformista è il momento in cui egli sceglie un percorso produttivo e creativo tale da portarlo a comunicare direttamente con un pubblico vasto ed eterogeneo, definendo per sempre un artista unico e irripetibile, maestro indiscusso, conosciuto e venerato in tutto il mondo.
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Note
[1] L’ebraico timshel, il tu puoi, base ideologica del libero arbitrio. Parole chiavi e conclusive della saga di John Steinbeck, La valle dell’Eden. Ma la parola ebraica, la parola timshel – tu puoi – implica una scelta. Potrebbe essere la parola più importante del mondo. Significa che la via è aperta. Rimette tutto all’uomo.
[2] 1940, Parma │ Roma, 2018. Primogenito del poeta Attilio, figura fondamentale in tutta la sua vita, fratello di Giuseppe, autore e regista teatrale e cinematografico, cugino di Giovanni, produttore, quella dei Bertolucci è una vera famiglia di artisti. Si iscrive, ma non termina l’Università, alla Facoltà di Lettere alla Sapienza di Roma, inizia la sua attività cinematografica come aiuto regista di Pasolini, dopo aver girato due cortometraggi amatoriali. Sarà per molti anni il compagno dell’attrice Adriana Asti. Nel 1962 gira il suo primo lungometraggio, La commare secca, su soggetto e sceneggiatura di Pasolini. Prosegue la sua attività che avrà una svolta con lo scandalo (e il successo internazionale) suscitato in Italia da Ultimo tango a Parigi, film per cui subirà una condanna che verrà smentita solo nel 1987 con una definitiva assoluzione. Con L’ultimo imperatore girato nello stesso anno, conquista ben nove Oscar. Nel 1997 vince il Pardo d’onore al Festival di Locarno e nel 2007 ottiene il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra di Venezia. Nel 2011 riceve la Palma d’Oro alla carriera al Festival di Cannes. Tra i suoi ultimi film ricordiamo The dreamers (2003) e Io e te (2012), adattamento cinematografico del romanzo omonimo di Ammaniti.
[3] Bernardo Bertolucci, “L’Espresso”, 1/8/1993.
[4] Oggi ho le gambe senza ossa. Sentite: per Tara, per tutta la regione il mio nome ha un suono di ribellione, di coraggio. Se vengono a sapere del mio tradimento tutto il nostro lavoro diventa inutile, capite. Non mi ucciderete voi. Sarò famoso anche morto. Molto più utile un eroe. Un eroe, sì, che la gente possa amare. Io sarò assassinato da un fascista, vigliaccamente. Offriremo lo spettacolo di una morte drammatica, che si scolpisca nell’immaginazione popolare, perché si continui ad odiare, odiare, odiare sempre di più… il fascismo. Sarà la morte leggendaria di un eroe, un grande spettacolo teatrale. Proveremo, proveremo come a teatro. Centinaia di attori. Tutto il popolo di Tara vi parteciperà, senza sapere. Tutta Tara diventerà un grande teatro.
[5] Soggetto e sceneggiatura sono di Marlù Parolini, Edoardo De Gregorio e Bernardo Bertolucci, dal racconto Tema del traditore e dell’eroe di Jorge Luis Borges.
[6] Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta, vol. IV – Editori Riuniti, I Testi, pag. 225.
Vedi anche: Lettera ai lettori con omaggio
Quod erat demonstrandum !