a cura di Letizia Piredda
Tra le miriadi di curiosità che animano la storia del cinema, alcune, sono davvero incredibili. Abbiamo visto film in un unico piano sequenza (Arcarussa, 2002 di Alexander Sokurov), abbiamo visto film in cui l’intera pellicola non è un vero e proprio filmato in movimento, bensì una sequenza di fotografie (la Jetèe, 1962 di Chris Marker), abbiamo visto film in cui la pellicola si squarcia e prende fuoco (Persona, 1966 di Ingmar Bergman). Abbiamo visto film girati interamente (o quasi) in soggettiva, (La donna del lago, 1947 di Robert Montgomery). Sappiamo che il film più lungo mai proiettato dura 87 ore e si intitola La cura per l’insonnia e si potrebbe andare avanti così per pagine intere[1].
Ma, mentre affondavo nella lettura del geniale libro di Alberto Crespi, Short Cuts,[2] definito un’analisi quantistica della storia del cinema dallo stesso autore, ne ho incontrata una che supera tutte le altre: un film che ne contiene 451. Si tratta di un film di György Pàlfi del 2012, un film ungherese che è stato proiettato in numerosi festival ed è cliccatissimo su You Tube dato che non è possibile vederlo al cinema.
Cito dal testo:
“Dura 82 minuti e racconta la storia più vecchia del mondo, la tipica “boy meets girl”un uomo incontra una donna, la corteggia, i due si innamorano; ma c’è un terzo incomodo di cui bisogna liberarsi, poi lei resta incinta, non trova inizialmente il coraggio di dirlo a lui, che fraintende e sparisce; ma il lieto fine è in agguato. Qual è la particolarità di questo film apparentemente così banale? Che Gyórgy Pàlfi, ungherese, classe 1974, non ha girato nemmeno un’inquadratura. Tutto il film e costruito con brevissimi estratti di altri film, famosi e non: 451 titoli (di molti di essi non è stato possibile ottenere i diritti, e questo impedisce al film di avere una distribuzione commerciale).
Alcune immagini del film
Il “lui” e la “lei” della storia hanno quindi i volti di centinaia di attori, da Robert De Niro e Meryl Streep fino a sconosciuti (per noi) attori ungheresi: Pàlfi ha ovviamente pescato a piene mani nei cinema del suo paese. Il film si apre con un’inquadratura di Avatar (id., James Cameron, 2009), il primo piano di un Na’vi – le creature blu – che si sveglia e apre gli occhi. Assistiamo al risveglio del protagonista (le inquadrature successive sono tutte famose scene di risvegli, fino ad arrivare a Kevin Spacey sotto la doccia in American Beauty, Sam Mendes, 1999 – dalla quale si passa, quasi per obbligo, all’inquadratura della doccia in Psycho, Alfred Hitchcock, 1960) ma anche a una dichiarazione di poetica: quelli che vedremo nel corso del film sono tutti avatar, doppi virtuali di ogni essere umano che compia quelle azioni nel mondo. Final Cut (espressione che indica il controllo finale sul montaggio di un film, e che ha dato il nome a uno dei più usati software di montaggio digitale è ovviamente un’ opera in cui il montaggio è tutto. Non è casuale che i montatori accreditati siano quattro: Judit Czakò, Réka Lemhényi, Nora Richter, Karol Szalai. La trama è come si diceva banale e infarcita di luoghi comuni lievemente sessisti, soprattutto nello scorcio in cui “lei” non ha il coraggio di rivelare la propria gravidanza. Potrebbe sembrare una critica, ma è probabilmente una scelta: Pàlfi cavalca la storia del cinema e tutti i suoi stereotipi, e il divertimento della visione non risiede certo nello sviluppo della trama, ma nel tentativo di riconoscere i frammenti di film man mano che appaiono. Tra i registi più saccheggiati figurano David Lynch, Woody Allen e Stanley Kubrick, ma naturalmente c’è anche Buster Keaton — che quando si parla di meta-cinema, di cinema che ricicla e divora sé stesso, è sempre il Maestro”.
Note
[1] Rhiannon Guy. Portala al cinema. Einaudi, 2004
[2] Alberto Crespi. Short cuts. Il cinema in 12 storie. Laterza, 2022
Vedi anche: Psycho, un film di Natale