di Mirta Tealdi
Should I stay or should I go? parafrasato attraverso la famosa canzone dei Clash del 1981, è l’interrogativo che attraversa buona parte del film di Kennet Branagh. Questa lirica, anche se non filologicamente correlata al tempo del film, rende perfettamente il quesito principale, in sospeso per buona parte della narrazione.
Il film inizia e finisce a colori ai giorni nostri, con due panoramiche aeree e riprese di Belfast. Inizia sulle note di Down to Joy, di Van Morrison, la cui melodia fa da trait d’union tra il tempo attuale e il tempo della storia che ha inizio il 15 agosto 1969. Molto bello è l’espediente visivo usato da Branagh per passare dal momento attuale a colori, al 1969 in bianco e nero. Invece che usare un taglio di montaggio, come ellissi tra l’ultima immagine a colori (un murales che raffigura degli uomini della “working class” irlandese) e l’inizio della storia in bianco e nero, continua invece la sequenza salendo con la cinepresa oltre il murales ad inquadrare, con una messinscena in bianco e nero dall’impianto fortemente teatrale, la stradina dove vivono il protagonista, Buddy (Jude Hill) e i suoi abitanti, compiendo il passaggio dal tempo attuale al tempo della storia in modo fluido quasi impercettibile. Bel momento cinematografico che raddoppia, poco dopo, quando Buddy tornando a casa per cena, mentre la madre (una eccellente Caitriona Balfe) lo chiama, si ritrova di fronte al primo scontro violento, un’azione di guerriglia, del giorno di Ferragosto del 1969, sulla strada (una “strada” simbolo di molte altre strade di Belfast, coinvolte negli episodi violenti che insanguineranno l’Irlanda nei decenni successivi). Branagh riprende la scena con una sequenza molto interessante: la camera si abbassa al livello del viso in primo piano del protagonista, che osserva ad occhi spalancati la scena, sospesa anche la musica. La cinepresa gli gira intorno due volte, al rallentatore, da quel momento Buddy diventa lo sguardo, il punto di vista, l’io narrante della storia. Per un attimo tutto si ferma davanti agli occhi increduli del ragazzo e poi l’azione riparte con gli scontri, e la messa a ferro e fuoco della piccola strada dove vive Buddy.
Branagh affida, la complessità della situazione, all’apparente semplicità dello sguardo del bambino (un sé stesso autobiografico), al quale consegna la propria esperienza infantile. Per tutto il resto del film la Questione Irlandese rimane piuttosto in superficie, fino al momento clou della violenza che deflagra, nonostante le barricate e la presenza dell’esercito britannico, e che porterà infine la famiglia di Buddy a decidere di lasciare l’isola. Nonostante gli atteggiamenti minacciosi, vagamente bullisti e più che altro strafottenti, del “cattivo” Billy Clanton (Colin Morgan, volto conosciuto come Merlino, nell’omonima serie televisiva britannica) che spadroneggia col suo seguito di “Unionisti” protestanti, intenzionati a far sloggiare dalla strada le famiglie di cattolici, la violenza vista attraverso gli occhi di Buddy non è mai vissuta in modo totalmente drammatico. Per lui è molto più dolorosa e inaccettabile la prospettiva di dover lasciare la propria città, la scuola, gli amici, i nonni, la bambina di cui è innamorato, insomma tutto il suo mondo. Anche se nel film Buddy e la sua famiglia sostengono di aver sempre vissuto pacificamente con le famiglie di vicini cattolici (e forse questo appartiene anche all’esperienza autobiografica di Branagh), nella realtà nel sanguinoso conflitto ultratrentennale tra Unionisti e Repubblicani dell’Ulster, la minoranza cattolica era spesso oggetto di una sistematica discriminazione in vari settori, tra cui quello lavorativo ed elettorale.
Belfast, sul piano visivo e narrativo è un omaggio alla propria terra, ai legami familiari, alla working class irlandese, che sono rappresentati nei loro aspetti più genuini e spontanei. Da un punto di vista estetico e stilistico, talvolta un po’ autocelebrativo, sembra a tratti troppo perfetto nella forma. Con una sceneggiatura impeccabile ma col “morso” stretto. Branagh passa con fluidità attraverso i registri drammatici e quelli comici o un mix dei due, come quando Buddy, istigato dall’amica Moira (Lara McDonnell) al saccheggio collettivo di un supermercato durante i disordini, l’unica cosa che prende è il detersivo in polvere Omo biologico. La madre, quando torna a casa tutto fiero di aver fatto il saccheggio, lo sgrida con forza e lo riporta al supermercato per restituire il maltolto, chiedendogli perché ha rubato un detersivo e lui risponde: – è biologico! –.
Dal punto di vista della messinscena, è molto bello l’uso del grandangolo, nelle riprese sia esterne che interne dalle connotazioni espressioniste. Suggestive le sequenze degli interni che riprendono vari spazi contigui, sia in profondità di campo che con prospettive ripide e molto angolate, capaci di includere ambienti e personaggi contemporaneamente presenti su piani diversi. Una fusione simbolica tra il dentro e il fuori, tra le storie familiari e la Storia esterna, il tutto visivamente mediato da filtri, come i tramezzi le scale, le cornici delle porte i vetri delle finestre, i vetri del pullman che porta via il padre che lavora in Inghilterra (lo stesso bus che porterà via pure Buddy e famiglia), e i vetri dell’ospedale da cui il nonno non farà ritorno, schermi che separano teatralmente e psicologicamente. E infatti l’aspetto più suggestivo del film è proprio la complessa e sofisticata regia di Branagh (che sperimenta stili e tecniche di messinscena) mentre sul piano narrativo il film è molto fluido.
La commistione di ironia e dramma si muove in modo naturale: dall’umorismo caustico e tenero, tutto irlandese, del nonno, Pop (un brillante Ciaran Hìnds), alla dolcezza ruvida della Granny (un’intensa Judi Dench), al carattere deciso e comprensivo della mamma. Su tutti la recitazione, molto sottolineata e favorita dal regista, del bravissimo Jude Hill. La colonna sonora è accattivante.
Molti sono i rimandi cinefili e molto interessante a questo proposito è l’operazione che Branagh fa sull’uso del colore originale dei film, visti dalla famiglia al cinema: Un milione di anni fa (1966), Chitty Chitty Bang Bang (1968), che sono proposti come nella realtà, in technicolor, rispetto al bianco e nero di Belfast (grandioso il dettaglio del riflesso colorato che il film disegna sulle lenti della nonna). Un colore che ha una valenza semanticamente analoga a quella sottolineata dal grande critico e teorico Andrè Bazin, rispetto al film Le mysthère Picasso (1956): infatti se Branagh avesse mostrato i due film (a cui assiste la famiglia al cinema), in bianco e nero, avrebbe operato un processo semanticamente scorretto, mettendo la finzione filmica sullo schermo, sullo stesso piano di “realtà” di Belfast della sua finzione filmica. E’ questo un raffinato dettaglio, di estrema suggestione.
Belfast è quindi un film stilisticamente interessante, che parla di instabilità politiche, di legami familiari, della nostalgia delle proprie origini e del dolore e del dramma di dover lasciare il proprio paese, le proprie case e le proprie famiglie. Un tema purtroppo, dolorosamente e drammaticamente attuale.