di Tano Pirrone
Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
se tu risvegli la furia del pallido e del freddo,
da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.[1]
Fra pandemie e guerre vicine e lontane, il secolo supera assai faticosamente il suo primo quinto e vola in fuga verso un futuro assai poco chiaro e certo. Quest’anno sono cent’anni dalla nascita di personaggi che abbiamo conosciuto, amato, seguito e che ora sopravvivono nel loro lavoro: cinema, musica, letteratura, teatro; e i cento tondi non si possono dimenticare: oggi particolarmente a cuore ci sta il ricordo di un attore memorabile, abile in tutti i ruoli, straordinario nell’assumere senza paura alcuna la maschera di personaggi ignobili, detestabili, cui lui, Ugo Tognazzi, riusciva sempre a dare un manto di umanità, che forse, altrimenti, non avrebbero avuto.
Tognazzi era nato a Cremona, nel cuore della Lombardia, a poche spanne dal Po. Con una malattia congenita, inguaribile: stare su un palcoscenico e recitare, farne (e dirne) di cotte e di crude: a quattro anni il precocissimo debutto, poi filodrammatica aziendale e organizzazione di spettacoli durante il servizio militare nel corso della Seconda guerra mondiale; poi nell’immediato dopoguerra il varietà con Wanda Osiris. Del 1950 è il primo dei suoi 150 film: I cadetti di Guascogna di Mario Mattoli al fianco di Walter Chiari.
L’anno successivo conosce Raimondo Vianello, dando vita ad una delle più brave e affiatate coppie dello spettacolo italiano, che ne conta illustri esempi, come i Fratelli De Rege, Walter Chiari e Carlo Campanini, Totò e Peppino, Cochi e Renato, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. La comicità di questa coppia era esaltata dal medium preferito: la televisione che nasceva in quegli anni, in quei mesi, e che faceva dei loro sketch un fiore all’occhiello, magnete potentissimo di pubblico, pubblicità, dimostrando continuamente grande capacità di crescere e migliorarsi. La satira di Un, due e tre ogni settimana sull’unico canale era al vetriolo e non risparmiava nessuno, neanche i presidenti della Repubblica. Azzardo che costò la chiusura del programma, il loro allontanamento e il licenziamento del dirigente Rai di Milano.
Sono ben 34 i film che Tognazzi gira prima di quello in cui si rivela un gigante della comicità stralunata, paradossale, istrionica: Il Federale di Luciano Salce (1962), entrando di diritto nel quintetto dei magnifici attori della commedia italiana (I cinque moschettieri): Gassman (1922-2000), Manfredi (1921-2004), Mastroianni (1924-1996), Sordi (1920-2003), tutti grandissimi e per nulla sovrapponibili, fenomeno unico nella storia del cinema e indice della qualità del magma umano, storico, culturale che scorreva nelle vene di questa ormai oggi poco riconoscibile Italia istagrammatica. Ritengo, contro una parte della critica che sostenne ciecamente il contrario, che questo film abbia contribuito, insieme a La marcia su Roma (Dino Risi, 1962), Gli anni ruggenti (Luigi Zampa, 1962) e Tutti a casa (Luigi Comencini, 1960) a maturare a livello di massa il senso del distacco completo dagli ideali e dal comportamento dell’italiano di Mussolini.
È nella sua carriera protagonista e coprotagonista in film indimenticabili che hanno descritto meglio di tanti saggi la nostra storia recente e non solo: sono stati un ritratto partecipato e commosso di anni difficili ma pieni anche di felice leggerezza. Sono stati la nostra vita e in essi ci siamo specchiati e riconosciuti. Oggi li rivediamo con nostalgia, ma riusciamo a riconoscerne, nonostante il coinvolgimento i frame di tutta una generazione, dei suoi pregi e dei suoi difetti, nel bene e nel male. Come nota Alberto Moravia[2], fra tutti gli attori italiani, che spopoleranno nella commedia italiana per almeno un trentennio, solo Mastroianni ha un livello internazionale, gli altri con l’uso sistematico del dialetto si elevano di poco sulla farsa; non si raggiunge una recitazione in lingua, drammatica, seria, borghese: «Tognazzi è l’unico attore comico “borghese”». Il giudizio si equilibra con l’affermazione di J.A. Gili[3], riferito ai “cinque moschettieri”: «Questi comici, con la loro lenta evoluzione fisica e più tardi col loro invecchiamento iscrivono sullo schermo la storia di una generazione».
Citare alcuni film non è facile, ma proviamo ad indicare dodici titoli (oltre a Il Federale di cui abbiamo già detto): La voglia matta (Luciano Salce, 1962), La marcia su Roma (Dino Risi, 1962), I mostri (Dino Risi, 1963), La vita agra (Carlo Lizzani, 1964), Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1965), In nome del popolo italiano (Dino Risi, 1971), La grande abbuffata (Marco Ferreri, 1973), Romanzo popolare (Mario Monicelli, 1974), Amici miei (Mario Monicelli, 1975), Il vizietto (Edouard Molinaro, 1978), La terrazza (Ettore Scola, 1980) e La tragedia di un uomo ridicolo (Bernardo Bertolucci, 1981).
Da un certo momento il cinema comincia a cercarlo di meno e le offerte non sono di grande qualità. Tognazzi torna così al Teatro, di cui aveva gran dimestichezza per lunga frequentazione negli anni dal 1944 al 1960, soprattutto rivista e teatro leggero, poi nel 1975 una grande rentrée al Teatro di Roma con Il Tartufo di Moliere, nella traduzione di Vittorio Sermonti, per la regia di Mario Missiroli e la direzione di Franco Enriquez. Interpreta tre ruoli, di cui uno femminile: il servizio dell’Istituto Luce rende appieno il clima di quella prima.
Così nel 1986 sceglie di recitare in francese in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello: a Parigi, Theatre de l’Europe, per la regia di Jean Pierre Vincent. L’inviato di Repubblica, Tommaso Chiaretti[3], ha dubbi sulla interpretazione registica, ma del Padre dice: «Tognazzi, lo dico di nuovo, ha compiuto una prova di attore che ci è parsa quasi sovrumana».[4] Nel 1988 va in scena con l’Avare di Moliere, sei giorni dopo l’abbandono del regista Mario Missiroli.
Fellini lo contattò per fargli interpretare Mastorna, nel “film non realizzato più famoso della storia del cinema”[5], ma il tempo ed il silenzio assorbirono il progetto che è rimasto solo come storyboard, portata in fumetti da Milo Manara[6].
In Tognazzi l’uomo non era mai scomparso a favore del personaggio, cui concedeva solo quel tanto che bastava per caratterizzarlo, per dargli la fisionomia e le minime qualità identitarie. Fatica improba, difficilissima, ma per lui vitale. Era in questo bravissimo ma Tognazzi “non se l’è mai tirata”! Andava faceva il suo sporco lavoro e poi tornava.
Egli in massimo grado ha esplorato il mondo di una serie di uomini senza qualità portandone alla luce la “mostruosità quotidiana”. Ha accettato di mettersi «al servizio degli autori più interessanti del cinema italiano, uscendo dai confini della commedia, mostrando di amare non l’omogeneità, ma la difformità, accettando di trasferirsi e di assumere ruoli di personaggi ripugnanti moralmente, ideologicamente, fisicamente e sessualmente…»[7]. Il breve “ritratto” di Ugo Tognazzi si conclude con queste parole: «[…] Tognazzi rimane sempre in mezzo al guado tra una natura fondamentalmente buona e una vocazione forzata alla mostruosità. Il più delle volte, pur vestendo i panni del mostro e del carnefice, è condannato a diventare vittima delle sue prede […]».[8]
Tutti i suoi personaggi sono stati facce dello stesso uomo, di quell’uomo che non voleva mai restare solo, che ha organizzato per trent’anni l’affollatissimo campionato di tennis Lo scolapasta d’oro, una kermesse amicale senza paragoni; e che si è dedicato alla sua passione della cucina e della convivialità.
[1] Prima strofa del sonetto di Pablo Neruda Se muoio sopravvivimi, in Poesie scelte, 1960 ca. (sonetto XCIV), amato da Ugo Tognazzi e citato con affetto nel documentario che i figli Ricky, Gianmarco, Maria Sole e Thomas gli hanno dedicato.
Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
se tu risvegli la furia del pallido e del freddo,
da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.
Non voglio che vacillino il tuo riso né i tuoi passi,
non voglio che muoia la tua eredità di gioia,
non bussare al mio petto, sono assente.
Vivi nella mia assenza come in una casa.
È una casa sì grande l’assenza
che entrerai in essa attraverso i muri
e appenderai i quadri nell’aria.
È una sì trasparente l’assenza
che senza vita io ti vedrò vivere
e se soffri, amor mio, morirò nuovamente.
[2] L’Espresso, supplemento 10 anni, 14 dicembre 1965
[3] J.A. Gili, La comédie italienne, Paris, Veyrier, 1983
[4] Tommaso Chiaretti, “E Tognazzi, il Padre espugnò Parigi…”, La Repubblica, 17 gennaio 1986
[5] La frase è attribuita al giornalista Vincenzo Mollica
[6] Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet – Editori del Grifo
[7] Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. 4 “dal miracolo economico agli anni novanta, Editori Riuniti. I Testi, 2001 (III edizione)
[8] Ibidem