di Mirta Tealdi
Ci sono autori (e questo avviene sempre per i più grandi) che è impossibile ridurre ad uno stile o ad un’estetica ben precisi e tanto meno circoscriverli in un discorso omogeneo. Ecco quindi che la paura di inadeguatezza di fronte ad un personaggio come Werner Herzog, mi fa tremare i polsi e la mano sulla tastiera. Decido dunque di approcciare il mio discorso, essenzialmente su un piano emotivo: ovvero, che cosa le opere di questo autore hanno suscitato in me, come reazione di spettatrice e appassionata di cinema.
Mi accingo, quindi, con in-trepida umiltà a descrivere uno dei grandi del cinema degli ultimi cinquant’anni. Un cineasta unico, sperimentale, estremo, controverso, inafferrabile, struggente, poetico e spietato allo stesso tempo (avendo ormai quasi terminato gli aggettivi più enfatici, torno in fretta su binari meno sfacciatamente partigiani).
Un irriducibile della cinepresa, poco o nulla interessato ai diktat produttivi, ha sempre scelto di rappresentare ciò che lo interessava, senza curarsi delle critiche o delle lodi. Indiscusso rappresentante, insieme all’amico Wim Wenders a Rainer Werner Fassbinder a Werner Schroeter, del Nuovo cinema tedesco degli anni ‘70-’80. Questi autori, erano alla ricerca di una maggiore libertà espressiva e produttiva, fuori dai vecchi modelli e dai loro vincoli estetici e culturali.
Nel suo primo lungometraggio, Segni di vita 1968 (che gli valse l’orso d’argento al Festival di Berlino), parla della follia che irrompe all’improvviso nella mente del soldato tedesco Stroszek, che ha il compito di sorvegliare un deposito di munizioni in un forte abbandonato sull’isola di Kos, durante la Seconda Guerra Mondiale. L’estetica del film in bianco e nero, richiama la tradizione neorealista, in particolare dei film di Theo Angelopoulos.
L’attore Klaus Kinski, con cui ha girato cinque film, lo considerava un pazzo visionario e detta da lui l’affermazione assume una connotazione ancora più suggestiva. Dotato di una personalità coraggiosa ed estrema, ai suoi attori e alla troupe (ad esempio in Fitzcarraldo. 1981), non chiedeva più di quanto non fosse disposto a rischiare lui stesso, ma la posta era molto alta e le condizioni spesso proibitive. Un idealista con un occhio disincantato, talvolta ambiguo e manipolatore, con un’attrazione speciale verso mondi estremi e selvaggi, foreste amazzoniche e africane, ghiacciai artici (Fireball: Visitors From Darker Worlds. 2020), nuvole, montagne e vulcani (La soufrière 1977. Into the inferno.2016), ma anche con uno sguardo antropologico sui meandri più profondi, violenti e oscuri della psiche (dell’animo umano quando si trovi imprigionato in uno spazio ristretto di un istituto di correzione in: Anche i nani hanno cominciato da piccoli 1970). Un film recitato solo da nani che, in un crescendo orgiastico, commettono azioni di una crudeltà e violenza inaudite, (ma quanto belli i movimenti di macchina circolari intorno agli attori a inizio film, a rendere l’aspetto surreale e claustrofobico: una polveriera emotiva pronta ad esplodere). O come in L’enigma di Kaspar Hauser (1974) in cui recita il non professionista, Bruno S., anch’egli come il protagonista, un personaggio ai margini, un disadattato ma con dei lampi di coscienza e le profondità di un filosofo.
Nel cinema di Herzog tutto si fonde, si contamina, in un amalgama fluido, non esistono documentari senza aspetti finzionali (Little Dieter Needs to Fly. 1997) e fiction senza dettagli documentaristici, in un unicum tra vissuto e rappresentazione. La sua voce, inconfondibile e foneticamente dura nel suo inglese con accento tedesco, che di frequente accompagna e commenta i documentari, rappresenta un elemento di riconoscibilità, originale ed ipnotico, così come spesso ipnotiche ed immersive sono le musiche (diegetiche in Fitzcarraldo e nella La ballata di Stroszek 1977 ).
Talvolta “politically uncorrect”, ad esempio nei confronti degli attori indios in Fitzcarraldo,messi a volte in grave pericolo, eppure allo stesso tempo, empaticamente vicinissimo, quasi fuso con i propri personaggi. Nel documentario Grizzly Man(2005) sul naturalista Timothy Treadwell, (anche lui un personaggio totalmente sopra le righe) fa con pudore la scelta etica e rispettosa di non far ascoltare la registrazione del momento in cui Treadwell viene ucciso e sbranato nella tenda, insieme alla compagna, da uno degli orsi che studiava e proteggeva nel Parco nazionale di Katmai in Alaska.
Una personalità multipla, insomma, quella di Herzog, controversa e spigolosa, autore di sequenze grandiose, di bellezza e spaventosità mozzafiato ( Apocalisse nel deserto. 1992), come di un ritratto intimo, poetico e commovente, nel documentario Kinski, il mio nemico più caro (1999), in cui omaggia in modo anche ironico e spietato, il suo attore più iconico, il suo alter ego cinematografico con cui ha creato dei tormentati cortocircuiti, artistici e creativi con esiti straordinari, e al quale era pronto a sparare (come da lui stesso raccontato), se avesse abbandonato il set di Fitzcarraldo, dopo uno dei suoi attacchi collerici fuori controllo. Della controversa, drammatica e complessa lavorazione di Fitzcarraldo, esistono, un diario tenuto da Herzog, La conquista dell’inutile pubblicato nel 2004 e un documentario Burden of Dreams (1982)di Les Blank.
E infine, non poteva che essere Herzog che, nel 1974, saputo che la sua carissima e anziana amica Lotte Eisner (importantissima critica cinematografica ebreo tedesca del periodo dell’espressionismo,anche lei un personaggio dalla vita romanzata e avventurosa), aveva avuto un infarto ed era in pericolo di vita, si mise in marcia da Monaco a Parigi (dove viveva Lotte) e in pieno inverno, in 19 giorni, la raggiunse. Aveva fatto un voto che, se fosse andato a piedi, lei si sarebbe salvata e così fu.
E’ così che, vita vera e finzione coincidono. Quale miglior soggetto per un film di Herzog!
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