di Riccardo Colella
Lo Scarface di Howard Hawks del 1932 porta con sé un’eredità di quelle pesanti e soltanto il provare ad avvicinarsi a un titolo del genere è un’impresa di quelle mastodontiche per chiunque. Gli Stati Uniti degli anni ’30 rappresentano un po’ la Golden Age del gangster movie e il proibizionismo offriva lo sfondo ideale per raccontare le storie di malavita che erano all’ordine del giorno. James Cagney ed Edward G. Robinson incarnavano la figura del gangster senza scrupoli che si muoveva, secondo i dettami classici del noir, in atmosfere cupe e notturne, circondato da donne, soldi, gioco d’azzardo ed estorsioni. Di quegli anni si ricordano Piccolo Cesare di Mervyn LeRoy e Nemico pubblico, con lo stesso Cagney che, nel corso degli anni, diverrà il volto del gangster per antonomasia. È passato del tempo da quando a Hollywood si raccontavano storie di malavita organizzata e quando la Universal Pictures decide di giocarsi la carta Scarface, a dirigere il remake del film del 1932 viene chiamato quel Brian De Palma già canonizzato da Il fantasma del palcoscenico e Carrie – Lo sguardo di Satana, come uno dei migliori registi della sua generazione.
A dirla tutta il termina remake può apparire a tratti fuori posto, in quanto il titolo di De Palma si discosta sensibilmente da quello di Hawks. Malavita e autodistruzione sono sempre al centro del progetto, ma la differenza principale sta nella diversa identità del protagonista che smette di essere un immigrato italiano nella Chicago degli anni ’20 (il cui personaggio ricalca non troppo velatamente la figura di Al Capone), per vestire i panni di Tony Montana, un profugo cubano che, nella disperata e ossessiva rincorsa al sogno americano, si getta a capofitto (è proprio il caso di dirlo) nel traffico di droga. Fin dalle prima inquadrature, è evidente come Scarface si regga per larga parte sulle spalle di Al Pacino. De Palma non perde mai d’occhio il suo protagonista. Lo tallona, lo insegue e la sua macchina da presa è sempre incollata al suo volto. E l’attore italoamericano ripaga magistralmente la scelta della produzione. Al Pacino è a suo agio nel ruolo di Tony Montana ed offre una delle più grandi prove attoriali che il cinema moderno ricordi. Il Pacino di allora ha la perfetta arroganza e spavalderia di chi sa di essere al top della forma e potersi permettere tutto. È un Tony Montana perfetto. Le inquadrature iniziali, che scorrono sul protagonista rivelano lo sguardo di un personaggio mefistofelico. I suoi occhi brillano di un’intensità demoniaca. Quella stessa furia ardente che sempre Pacino ritroverà nel 1997 con L’avvocato del diavolo.
È una mimica estrema la sua, il sorriso accattivante, l’accento marcato e i suoi movimenti tesi, nervosi e scattosi. Colmi di una violenza parzialmente sopita, ma pronta a esplodere in qualsiasi momento. E il merito di Al Pacino è proprio quello: il saper immergere le vicende in un alone di folle corsa al potere. “The World Is Yours – Il mondo è tuo”. Ma che prezzo ha il potere? È una sanguinosa spirale di pacchiana e sfarzosa violenza. Una rabbia animata da una cupa determinazione che lo porterà a perdere definitivamente i suoi affetti e ritrovarsi irrimediabilmente solo. Scarface è una feroce satira al mondo di una cultura avida e sgargiante. Al desiderio del lusso sfrenato ad ogni costo. Montana vuole tutto e lo vuole subito. Soldi, potere, sfarzo ed Elvira: la donna che ne cattura il cuore al primo sguardo. Figura di grande fascino ma triste, insoddisfatta e anch’essa votata all’autodistruzione e che ha le fattezze di una Michelle Pfeiffer alla sua prima grande prova attoriale.
Scarface è una pietra miliare del genere. Un Al Pacino in forma smagliante è contorniato da un cast perfetto e credibilmente calato nelle parti. La sceneggiatura è scritta da Oliver Stone ma l’idea di spostare le avventure del protagonista dalla Chicago italoamericana di inizio secolo a una Miami in totale sbando e in balìa dei narcotrafficanti, è dello stesso Sidney Lumet che, con Pacino, lavorerà a un altro indiscusso capolavoro del cinema come Serpico. Nel film ci sono scene potenti e memorabili, che entrano prepotentemente nell’immaginario collettivo cinematografico. La scena del ristorante dove lui, ubriaco e caracollante, in contrasto con un ambiente ricco e impostato, vomita il suo disprezzo nei confronti di una società ipocrita. Il momento in cui Montana è seduto alla sua grossa e scura scrivania, immerso in una montagna di droga o la scena finale, volutamente debordante, estrema e fuori dagli schemi. “Push it to the limit – Spingersi al limite”. È il titolo del singolo di Giorgio Moroder che accompagna la scalata di Tony Montana al successo. Una corsa ai vertici del mondo malavitoso e del narcotraffico, che anticipa una rovinosa e inevitabile caduta.