di Tano Pirrone
Non erano ancora le quattro e stavo procedendo, come sempre alla prima lettura dei quotidiani, rigorosamente on line, come faccio tutte le mattine, sempre partendo, per fedeltà, abitudine e convenienza da La Repubblica. Arrivo ad una delle stazioni obbligatorie, il Posta e risposta di Francesco Merlo, che non manco mai di leggere. Merlo, catanese senza le qualità di mediazione del catanese macca liotru, è una lettura obbligata per me che catanese in senso stretto non sono, ma che alla città di Sant’Agata sono legato indissolubilmente in modo uterino; al contrario di Siracusa, cui mi lega uno stupìto legame di affetto e ammirazione tutto intellettuale. Insomma leggere Merlo è fondamentale: acido (nel senso di corrosivo), pane al pane e vino al vino, non manca giorno che non stimoli, a noi pigri, una lettura, una ricerca, una riflessione. Lo scorso sabato, il 5 (festa di Sant’Agata, tanto per dire!) c’era una lettera di Pippo Di Marca: drammaturgo, regista e attore, figura centrale dell’avanguardia teatrale italiana, catanese classe 1941, trapiantato a Roma nel 1965.
Lamenta, Di Marca, che … ma, forse, val la pena leggere per intero la breve lettera e, a seguire, la caustica risposta di Merlo:
Monica Vitti; Monica Vitti in La ragazza con la pistola,1968 di Mario Monicelli; Luigi Tenco
Pippo Di Marca: «Caro Merlo, nel lontano 1965 appena arrivato a Roma (da Catania) per “fare” il teatro ho visto tra gli altri, due spettacoli molto belli, per me allora catecumeno, memorabili. Uno era di Carmelo Bene (di cui sono diventato amico), al Teatro delle Muse, e l’altro era “Dopo la caduta” di Arthur Miller con la regia di Franco Zeffirelli e con Monica Vitti e Giorgio Albertazzi (anch’egli un carissimo amico) protagonisti, al Teatro Eliseo. Lo segnalo per dare al teatro, ultimamente un po’ bistrattato, un minimo di “visibilità” degna di un Paese che si ritiene ad alta intensità culturale. I due teatri, in quanto luoghi, non ci sono più. Di Monica Vitti attrice, oltretutto bravissima, anche a teatro, ora che è morta, avrebbe giusto (dovuto, nda) almeno accennarne.»
Francesco Merlo: «Carmelo Bene e Albertazzi? Probabilmente non diceva all’uno di essere amico dell’altro. Quando infatti chiesero a Carmelo Bene, che aveva due lupi, come si chiamasse il suo cane: “Albertazzi” rispose. E l’altro? “Albertazzi”. Come Monica Vitti, anche loro sono morti. E forse un giovane alle prime armi in teatro non trova più, come riuscì a lei, maestri di cui diventare amico.»
Appena quattro giorni prima del sabato in questione, martedì 1 febbraio, una cara amica, ospite per vedere insieme un film (1945 di Ferenc Török, HU – 2016), mi portò, sua sponte, un libro di Pippo Di Marca Sotto la tenda dell’avanguardia (Titivillus, 2013) con tanto di dedica autografa dell’autore alla mia amica Bea e al marito Maurizio. Le promisi di darle un’occhiata e lì, sul ripiano del mobile in salone è rimasto fino all’alba del sabato successivo. Poi, letta la citata corrispondenza fra autore e Merlo, ho deciso di approfondire. In verità mi stimolava anche l’accenno a Monica Vitti per la quale è partita la tempesta perfetta delle celebrazioni acritiche, dell’apoteosi totale, della santificazione, della erezione a ennesimo Moloc del mito dei santi del cinema e del teatro italiani. Il tutto è stato sotterrato, però, dalla melensa, disgustosa panna acida del Festival di Sanremo, che sembra essere, ormai l’àncora e la salvezza della Rai (sempre coi vermi dei partiti dentro a rosicarne polpa e semi), la santificazione in vita del pur bravo e simpatico Amadeus, l’esaltazione di “tipi” di artisti, per la cui classificazione, onestamente, mi mancano i minimi elementi di giudizio. Quelli (gli artisti, intendo) della mia generazione mi sembrano vivaci e rincoglioniti al contempo. Non so che dire: per puro spirito di legittima difesa non vedo e non ascolto nulla di Sanremo post Tenco. Mi restano i classici, il jazz e tanta musica leggera non rollata nei joint rivieraschi.