di Gianni Sarro
A margine di una serie d’incontri sul cinema di Elio Petri e Francesco Rosi mi sono soffermato su un argomento coinvolgente: come il cinema italiano ha narrato l’impatto della città sull’individuo dal secondo dopoguerra agli albori degli anni sessanta.
Il primo film che incontriamo in questo ipotetico percorso è Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945). Pietra miliare del neorealismo, il capolavoro di Rossellini mostra una città grigia, dolente, tuttavia non morta, dalla quale emerge un uso retorico dello spazio, articolato sull’opposizione centro/periferia. Il centro è formalmente e metaforicamente controllato dai tedeschi, come vediamo nella prima scena con il plotone di soldati che sfilano a piazza di Spagna, uno dei luoghi simbolo della capitale. Viceversa, Manfredi, uno dei capi della Resistenza, fugge dal centro della città (la casa a piazza di Spagna) e va a rifugiarsi in periferia.
Dall’alto: Roma città aperta, Il sorpasso, Io la conoscevo bene, Il sorpasso, Ladri di biciclette
La città di Roma città aperta è aggregante, è un luogo solidale, dove vince il ‘noi’. La vicenda, non a caso, ha il suo centro al quartiere del Prenestino, all’epoca di nuova costruzione, che rappresenta il centro popolare ma pulsante della città. Tutti insieme, da Manfredi a don Pietro, da Pina ai bambini, coesi contro i Tedeschi. Pochi anni dopo Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948) e Umberto D (De Sica, 1952) mostrano due protagonisti soli, spaesati per le vie della città. Sono due film, quelli di De Sica, estremamente moderni: anticipano, registrano un cambiamento che comincia e, scopriremo col tempo, finirà coll’essere irreversibile. La metropoli, ora matrigna, sta diventando indifferente al destino degli individui. Con gli anni sessanta il discorso si consolida definitivamente. La città del boom (e la società di cui è specchio) è anonima. Pensiamo agli spazi vuoti de L’eclisse (Michelangelo Antonioni, 1962), dove i personaggi sono ectoplasmi, che non trovano più nessun accordo con l’ambiente, perdono tutti i punti di riferimento, fino a scomparire essi stessi negli ultimi minuti della pellicola. In questo ideale itinerario impossibile non fare riferimento a due film di Pasolini Accattone (1961)e Mamma Roma (1962), entrambi ambientati, come Roma città aperta, nella periferia della capitale, dove tuttavia non regna più la solidarietà e la coesione, bensì i segni sempre più evidenti della disgregazione sociale. Il tema del personaggio errante lo ritroviamo in uno dei capolavori di Elio Petri: I giorni contati (1962) dove Cesare, il protagonista interpretato dal grande Salvo Randone, vaga per la città per giorni, alla ricerca di un senso della vita, che non trova. Le ultime immagini mostrano Cesare inghiottito nel tunnel imboccato dal tram. È solo. È anche morto? Non lo sappiamo. Certamente trionfa l’emarginazione, l’abbandono. Da sottolineare nella sequenza finale i rumori e i suoni che sono portati molto in primo piano, acuendo la sensazione di disagio e spersonalizzazione.
Sappiamo invece qual è l’epilogo di Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1965). Il viaggio finale di Adriana (Stefania Sandrelli) avviene in una Roma dalla luce pallida e si conclude con il salto nel vuoto della protagonista, inghiottita, respinta dalla città. Sola.
Ancora: pensiamo all’inizio de Il sorpasso (Dino Risi, 1962). Il film ci mostra, a partire dalla prima scena, Bruno (Vittorio Gassman) irrompere dai limiti dell’inquadratura più volte, come chi cerca di varcare la soglia di un mondo (la società del benessere) dalla quale è e rimarrà escluso. Inquadratura dopo inquadratura Bruno penetra lo spazio, va avanti, conquista terreno, tuttavia è un’occupazione vana, lo spazio che occupa è vuoto, non c’è nessuno.
Finiamo questa carrellata con uno dei capolavori di Ettore Scola: C’eravamo tanto amati (1974). Film manifesto che abbraccia l’arco di tempo che va dalla fine della seconda guerra mondiale ai primi anni settanta. La scena simbolo, che mostra i tre protagonisti un tempo amici imboccare strade diverse, è rappresentata con la transizione dal bianco e nero al colore: una mutazione cromatica che simboleggia un passaggio di tempo dove l’avvento del colore non segnala la realizzazione dei sogni. Al contrario cristallizza la frattura della coesione. L’ultima immagine di questo ideale passaggio è una piazza vuota, inquadrata dall’alto. La metropoli moderna è ostile e il personaggio non solo è errante, ma, forse, si è irrimediabilmente perduto.