Lina Wertmüller, donna di cinema e insuperabile manipolatrice degli opposti. Si sperava nell’eternità. Fellini sarà contento.
di Tano Pirrone
Il cinema allunga la vita. È l’Arte, forse, il mondo in cui i praticanti vivono più a lungo… Fate più Arte, l’Arte fa bene (tirare Fellini fuori dalla tuba è d’obbligo!). Dite che Clint lo sapeva ed è per questo che, dopo l’ultimo film, riavvierà la macchina per farlo diventare penultimo, con una pratica che sta diventando ripetitiva?
Nel novero degli ultra novantenni c’era anche la nostra Lina Wertmuller, morta ieri alla bella età di 93 anni.
Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich detta Lina era svizzero lucana, non perché figlia di lucani emigrati in Svizzera, bensì di svizzeri trasferitisi in Lucania. Per dirla con esattezza era figlia di Federico Wertmüller originario lucano proveniente da una famiglia aristocratica di remote origini svizzere, e di Maria Santamaria-Maurizio. Studia cinema e comincia a lavorare, e già alle prime luci del suo giorno debutta con la regia dello sceneggiato televisivo a puntate tratto dall’omonimo romanzo di Vamba: Il giornalino di Gian Burrasca, con Rita Pavone. Suo (di Lina) è l’adattamento. Le musiche, dirette da Bacalov, sono di Nino Rota. È il 1964, la miniserie ha un gran successo e si garantisce mezzo secolo di repliche (speriamo la ridiano ancora, ne vale la pena.)
I coccodrilli ufficiali ne esaltano l’essere stata la prima regista donna nominata per l’Oscar, esattamente per Pasqualino Settebellezze, che ebbe successo anche negli Stati Uniti, la Wertmüller è candidata a tre Premi Oscar nella cerimonia del 1977(migliore regia, miglior film straniero, migliore sceneggiatura), mentre una quarta candidatura arriva a Giancarlo Giannini per l’interpretazione del protagonista. Dopo di lei ci saranno solo Jane Campion, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow, Greta Gerwig, Emerald Fennell e Chloé Zhao, rispettivamente nel 1994, 2004,2010,2017,2021. L’Oscar le fu assegnato in piena pandemia nel 2020, alla carriera.
Un altro primato che le viene attribuito è quello del titolo di film più lungo, esattamente Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici (1978). La versione lunga del titolo (Un fatto di sangue nel comune di Siculiana fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici. Amore-Morte-Shimmy. Lugano belle. Tarantelle. Tarallucci e vino) vanta il record nel Guinness dei primati come titolo più lungo di un film nella storia del cinema. Negli Stati Uniti il film fu semplicemente intitolato Revenge: vendetta… tremenda vendetta!
Tanti i film che hanno avuto grandissimo successo di pubblico anche per la presenza esagerata di due mostri del firmamento attoriale: Giancarlo Giannini e Mariangela Melato. In tutti i suoi film due cose non sono mai mancate, oltre i titoli lunghi mezza pagina: i primi piani e le botte. Ieri sera RaiTre ha mandato in onda Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici (1978). Ne ho vista una parte, non più di mezz’ora, ma sufficientemente per esaltarmi con il gioco dei primi piani, in un batti e ribatti fra Loren e Giannini, che giusto loro, in mano a Lina potevano sopportare tali intrusioni; e la lotta nella stalla in cui Giannini cerca senza tante buone maniere di convincerla a dargliela, con mutande ciclopiche e cicli inesauribili di gonne e sottogonne.
Bisogna dirlo: Lina girò molte scene scabrose, che oggi rischierebbero di essere classificate come violente e considerate inaccettabili, ma Lina seppe girarle con quel tocco di grottesco dosato e magico, per cui ancor oggi rimangono capolavori di regia e di recitazione. Seppe fare del cinema leggero un’arte, realizzando l’antico motto castigare ridendo mores, proprio lei che tutto fu tranne una moralista. In questa chiave va riconsiderata l’assegnazione dell’Oscar alla carriera nel 2020: in pieno MeToo e in tracotante ondata di cancel culture ha un segno di valore assoluto. E rimane ancora una gran fatica riuscire ad ammettere che nella gran parte dei suoi film «c’era un mondo diverso, sgargiante, di talento, che era la sua forza di fare spettacolo mettendoci anche le idee e le contraddizioni del momento. Sugli stereotipi del maschio italiano (la sua “musa” Giannini), gli schematismi della politica della società, gli ammiccamenti al cinema di genere. Quel suo senso di allegria, di libertà inventiva e di giudizio, dentro e fuori dal set, non garbava a tutti quei clercs che passano la vita con l’aria di essere stati traditi. Lei ci rideva sopra, ci girava un altro film. E ora appartiene di diritto alla benedetta schiera di chi ha saputo farci divertire, con intelligenza[1].»
È ora di chiudere, ma non posso farlo senza ricordare la Lina Wertmüller degli inizi, aiuto regista di Federico Fellini ne La dolce vita (1960) e in 8 ½ (1963); quest’ultimo magico anno la vide autrice, sceneggiatrice e regista de I basilischi. Girano ancora dentro di noi le scene di quel sud che abbiamo abbandonato, i suoi rituali, le debolezze sociali, i quadretti tipici che hanno dietro medioevi mai completamenti esauriti. Resta nei suoi fotogrammi un Sud fuori moda ma sempre presente nei nostri sogni, sempre!
Buon viaggio, Lina, ci vediamo in piazza, una di queste sere, buon viaggio.
[1] Maurizio Crippa, Il Foglio
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Anna G.
È triste assistere alla sparizione dei grandi capisaldi della nostra vita. Ancora sento la mancanza di Proietti ormai nei murales della periferia.
Tano
Il naturale avvicendarsi delle stagioni e dei viventi rattrista, ma colma il cuore di speranza vedere che gli spazi lasciati vuoti si riempiono e i sostituti non sono (non saranno da meno): per esempio, fra le registe di qualità sicuramente, oltre alle consolidate storiche Archibugi e Comencini, sono ottime autrici Emma Dante, Susanna Nicchiarelli, e Alice Rohrwacher. Devo riconoscere che la distanza con la Wertmuller (e con la stessa Cavani) rimane ampia. Fra i maschi il mio regista “giovane” preferito è Pietro Marcello, la cui ultima ottima opera è stata Futura (2021), un’inchiesta sui giovani svolta in tutt’Italia, insieme con Alice Rohrwacher (Corpo celeste, 2011; Le meraviglie, 2014 e Lazzaro felice, 2018) e Francesco Munzi (Anime nere, film del 2014 e Miracolo, serie TV del 2018). Non molto, ma non mi sento di addebitare colpe a costoro. La produzione cinematografia in Italia è marginale; grandi nomi, hanno saputo fare non meritata raccolta di finanziamenti e premi. Oscurati tanti nuovi nomi capaci e con idee innovative. Prendi il caso di Pietro Marcello, regista di Martin Eden del 2018, grandissima opportunità, sacrificata sul piano della banalità commerciale.
Ci sono sempre i grandi registi di una volta, i grandi film anche del passato: oggi pomeriggio io lo dedico a “La passione di Giovanna D’Arco” di Carl T. Dreyer. Film muto del 1928, capolavoro del grande regista espressionista, autore anche de Il Vampiro, 1932.