L’Arminuta, 2021 di Giuseppe Bonito
di Mirta Tealdi
Primi anni ’70, una ragazzina adolescente viene portata in auto dal padre in un povero e isolato casolare di campagna, e lasciata lì, affidata a quella che scoprirà essere la sua vera famiglia. Dovrà da sola, scaldata solo dalla spontanea affezione della sorellina Adriana, districare i fili intrecciati, fatti di silenzi risoluti, ostilità e sguardi furtivi, di una vicenda familiare dolorosa e ingiusta.
Il regista Giuseppe Bonito già premiato al suo esordio con “Pulce non c’è” (2012), porta sullo schermo” l’Arminuta”, il romanzo di Donatella Di Pietrantonio, vincitore del Premio Campiello 2017.
Come riuscirà la giovane “Arminuta” (La ritornata, in dialetto abruzzese) ad adattarsi alla sua nuova vita? Si sviluppa attraverso un gioco di sguardi e omertosi silenzi, il filo che lega la giovane di buona famiglia al nuovo stile di vita e all’arretratezza di un mondo rurale ancora arcaico della sua vera famiglia. Un film fatto di silenzi, di occhiate, di omissioni, di ostilità e abbandoni. I grandi occhi spalancati, nei primissimi piani della protagonista (una brava Sofia Fiore) cercano risposte che non arrivano, che sfuggono alle sue domande, palesi o silenti.
Unico aspetto in certi momenti meno convincente è l’estetica, costruita un po’ troppo per contrasto, della giovane Arminuta. Assomiglia a tratti ad un’“Alice nel paese delle Meraviglie” che la fa emergere come un elemento troppo teatrale in un film dall’aperta connotazione realista.
Non si salva quasi nessuno dei genitori, adottivi o reali. Adulti incapaci e bambine più adulte dei grandi. E’ il mondo alla rovescia de “L’Arminuta”.
Bella la catarsi della scena finale, in cui le due bambine si spogliano dei vestiti e dell’infanzia per tuffarsi mano nella mano in un mare argenteo e consolatorio.