a cura di Tano Pirrone
Facce dispari. Una parte nel “Casanova”, una nella “Città delle donne”, Silvana Fusacchia sapeva far sorridere il regista.
Intervista di Francesco Palmieri da Il Foglio di 18 ottobre 2021
Conserva i pattini che non ha usato più dentro l’armadio dei maglioni, ma di pattinare forse non ha smesso mai. Per Federico e per se stessa, giacché le cose che rendono felici sempre continuano nel sogno. Silvana Fusacchia recitò poco ma bene perché non voleva diventare attrice, soltanto accontentare il maestro che dalla sua presenza s’accendeva di allegria innocente. Curioso di cogliere l’animo di quel volto preraffaellita e scanzonato, che apparteneva a una ventiduenne forse antica quanto lui che andava verso i sessanta, Fellini le diede una parte nel “Casanova”, poi la consegnò al ruolo dell’enigmatica Gabriella, che sui pattini compie per “fioretto” 300 giri al giorno nel concitato albergo di “La città delle donne”.
Silvana, come conobbe Fellini?
Frequentavo Antonello Geleng, il figlio del pittore Rinaldo che collaborava con Fellini. Giocavamo a farci ritratti e scambiarceli. Un giorno Antonello mi disse: “Federico ha visto la tua foto e vorrebbe conoscerti”. Quando andai a Cinecittà per incontrarlo c’era un sacco di gente in attesa per i provini, il tempo non passava e m’annoiavo, sicché cominciai a chiacchierare con qualcuno. All’epoca stavo imparando la lettura della mano, non da chiromante ma da chirologa, ossia per tratteggiare la personalità, perciò mi misi a esaminare un po’ chi me lo chiedeva finché mi chiamò Liliana Betti, l’assistente di Fellini. Lui disse subito: “So che hai letto la mano a tutto il teatro, fallo anche a me”.
Quando accadde?
Primavera del ’74, non avevo compiuto 23 anni.
Gliela lesse?
Gli spiegai che col mio metodo dovevo guardare entrambi i palmi, lui me li aprì sul tavolo e mentre dicevo cosa vedevo, strinse forte le mie mani e mi guardò fisso negli occhi. Arrossii fino alle orecchie. Federico scoppiò a ridere e chiese di parlargli dei miei interessi, dei miei disegni. Fu così tutte le volte che lo rivedevo: gioioso, divertito, e il suo divertimento rallegrava anche me. Ero un tipo spontaneo, facevo tante gaffe, per questo mi portava a qualche cena sperando che me ne scappassero per ridere un po’.
Poi la fece recitare nel “Casanova”, dove lei e Olimpia Carlisi impersonate le figlie dell’entomologo Moebius. Trafiggendo vermi con gli spilloni, procurate un malore all’avventuriero veneziano e lo curate. Lei se la cava bene.
Era il mio esordio sul set. Mi avevano dato una parte in inglese che avevo faticato molto a imparare, ma al momento di girare la segretaria di edizione, Norma Giacchero, avvertì che era inutile perché ci sarebbe stato il doppiaggio. Quel giorno nel teatro ci saranno state settanta, ottanta persone, c’era tensione e Fellini cominciava a spazientirsi e diventava burbero. Mi spiegò che avrei potuto dire qualunque cosa mi veniva in mente purché non in italiano, così al ciak cominciai a cantare: Allons enfants de la Patrie… Tutti scoppiarono a ridere.
E Donald Sutherland/Casanova?
Uomo meraviglioso, colto e modesto. Appena seppe che ero al debutto mi fece auguri calorosi in perfetto italiano.
Fellini come vi spiegava le scene?
Esponeva la storia poi il senso: “Casanova è sorpreso perché non ha mai visto un lavoro come il vostro, mentre per voi è abituale poiché fin da piccole vostro padre ve lo ha insegnato…” eccetera. Raccontava come fosse una fiaba, non potevi sbagliare.
Perché la scelse per la pattinatrice di “La città delle donne”?
Andai a trovarlo mentre girava “Prova d’orchestra”. Tornando assieme in macchina, gli raccontai del più e del meno e che la sera pattinavo sotto il colonnato di piazza Augusto Imperatore. Dopo qualche tempo telefonò la Betti e m’invitò per l’indomani a Cinecittà perché Federico voleva mostrarmi una cosa. Quando arrivai lui mi portò sulla pista: “Ecco – disse – finalmente ti vedrò pattinare”. Girai la scena così com’ero, col mio vestito. Mi procurarono soltanto i pattini.
Vi siete rincontrati spesso?
Troppo poco. Mi esortò tante volte ad andare al suo studio per disegnare insieme, ma avevo un fidanzato geloso che una volta addirittura mi schiaffeggiò perché avevo rivisto Fellini. Non dovevo dargli retta: il fidanzato lo persi e poi pure Federico, che aveva con me un rapporto senza secondi fini, pieno di rispetto e dolcezza. Gli ho fatto un torto che non meritava. Crescendo ho capito che non bisogna mai ascoltare chi vuol negarci momenti di innocente felicità.
Lo ha mai sognato?
Solo quando era vivo, in due occasioni. Federico era molto interessato ai miei sogni e a volte mi “assegnava” un tema onirico che poi gli avrei dovuto riferire. Una notte lo “vidi” nel ruscello davanti casa di mio nonno: s’era addormentato con la testa sott’acqua e correvo a tirargliela fuori. Quando glielo dissi restò molto pensieroso. Poi lo sognai in un teatro di posa con la scena di un pergolato, attorniato da tanta gente. Doveva girare un film su Pinocchio e mi diceva: “Tu non ci sarai”. Lo avrebbe fatto Benigni, assieme al povero Danilo Donati. Ma Pinocchio di Fellini sarebbe stato tutta un’altra cosa…