di Letizia Piredda
Non so se capita anche a voi, ma, a volte, mi ritorna in mente con forza un elemento tipico di un regista. Stiamo parlando di registi che lasciano un segno indelebile, che hanno uno stile inconfondibile, come Hitchcock, Lubitsch, Ophuls. Ed è proprio a quest’ultimo che mi riferisco. Mi ha sempre affascinato quel suo modo di muovere la mdp con movimenti circolari, carrellate che ruotano intorno una casa, che portano lo sguardo dall’esterno all’interno, attraverso finestre socchiuse, o semiaperte, dove una tenda o un pizzo ostacolano lo sguardo. E guarda un po’ che succede: mentre sto leggendo Allucinazioni americane di Calasso [1], d’un tratto mi imbatto nella definizione di immagine cinematografica:
…chi guarda da una finestra aperta non vede mai tutte le cose che vede chi guarda da una finestra chiusa. Non vi è oggetto più profondo, più, misterioso, più fecondo, più tenebroso, più abbagliante, di una finestra illuminata da una candela. Ciò che si può vedere al sole è sempre meno interessante di ciò che avviene dietro a un vetro.
La definizione è di Ophuls, che, per farci capire questo assioma, ha introdotto nei suoi film una molteplicità di segnali: una grata, un vetro, una persiana socchiusa, un pizzo, un tendaggio.
Dietro il vetro, lì dove inizia il vetro della mente.
[1] Roberto Calasso. Allucinazioni americane, Adelphi, 2021