Lezioni di Festival: Elio Germano (1)

Storie, interviste e riflessioni sulla 78 Edizione della Mostra del Cinema di Venezia

di Lorenza Del Tosto

Elio  Germano

Una Mostra Internazionale del Cinema, come questa di Venezia, è tante cose insieme: concorsi, abiti magnifici e tappeti rossi, ma soprattutto galleria di umanità e affresco di emozioni. Grandissimo traguardo partecipare in una delle sezioni del Festival, eppure, anche in queste alte sfere, uomini e donne vivono di timori e speranze e sono loro, talvolta più dei loro film, a lasciare un segno dentro di noi che abbiamo la fortuna di scorrere dall’uno all’altro, in umile servizio[1]. Riceviamo lezioni sullo stare al mondo: da artisti osannati che tornano a casa invariabilmente senza premi, dai grandi vecchi che sorridono con malinconia alla nascita di nuove stelle, da esordienti consapevoli che il loro  trionfo, questo momento bellissimo, non è inizio di niente, ma è già apice e fine in un’industria che spreme e divora e di alcuni, ottenuta l’essenza, lascia solo le spoglie. Impariamo la forza dell’ironia, arma potente, e dell’umiltà: dei successi ottenuti con un lavoro certosino di anni, e degli insuccessi, frutto di lunghe fatiche di cui è valsa sempre la pena. C’è sempre un pizzico di eternità nell’atto di creare, nel suo intento di scoprire, di cercare. La Mostra del cinema è lezione di vita. E oggi lezione di coraggio.   

È settembre e nel cielo del Lido c’è una dolcezza infinita. Un ultimo languore estivo che invade la piccola stanza all’ultimo piano del Hotel Excelsior ora che, spalancate le tende, si apre la portafinestra che dà sul terrazzo. Elio Germano esce di slancio, si appoggia alla balaustra e guarda il mare che scintilla, là sotto, un Adriatico luminoso anche se sempre un poco offuscato. Respira, si rilassa: già una parte della giornata è andata, le interviste con le televisioni estere sono finite. Resta solo la stampa scritta. Con le Tv  c’è l’oppressione della stanza da tenere chiusa, delle luci artificiali, e niente aria condizionata perché il rumore entra nel microfono. Sono gentili, però, questi giornalisti stranieri, mettono allegria: il gruppo, con una splendida signora in sedia a rotelle, dove discutono animatamente in russo tra loro prima di ogni domanda, e la giornalista serba sempre entusiasta e curiosa. Ma non c’erano loro oggi. C’erano altri giornalisti seri, compassati che diplomaticamente non hanno fatto commenti sul film: America Latina dei fratelli D’Innocenzo, di cui  Elio Germano è protagonista, ma hanno usato il tempo per avere chiarimenti su una storia che, a quanto sembra, nessuno di loro ha ben capito. Quello che si è capito bene però è che il ruolo di Elio Germano è duro, difficile, di quelli che costringono ad esplorare le tue zone più oscure, insomma un bel viaggio agli inferi: Massimo è dentista gentile e dalla mano delicata, che adora sua moglie e le loro bellissime figlie e un giorno scopre l’orrore nella sua cantina.

“Come ti riprendi da un ruolo così?” E lui, jeans, maglietta e scarpe blu, occhi luminosi, appollaiato sulla sedia, aggroviglia le gambe e sorride: “Cerco di dimenticare. Per liberarmi di un ruolo, alla fine delle riprese, corro sempre a tagliarmi i capelli.” È il suo modo di esorcizzare un personaggio,  ma i fratelli D’Innocenzo lo vogliono sempre con la testa calva e allora bisogna trovare altri modi .

Una testa calva dove i gemelli D’Innocenzo puntano e tengono incollata la macchina da presa perché ci scavi bene dentro. Una testa indagata da dietro, tutta abitata di pensieri. Ora, con i capelli ricresciuti, questa stessa testa affronta l’insuccesso davanti alla stampa estera. Lascia che i loro occhi indaghino e non può evitare di sorridere al suono dei loro nomi stranieri incomprensibili e affascinanti. Come se solo il suono di quei nomi schiudesse le porte di questa stanza e aprisse a grandi avventure, a viaggi e misteri.

 A chi sventatamente stamani gli ha chiesto. “Allora come è andata ieri sera la première ?”

Elio Germano, seduto come un fachiro sulla sua sedia, che sembra nuda al centro della stanza, ha ironizzato arrossendo: “Eh qualche applauso, comunque niente fischi è già qualcosa. “ Anche se nei prossimi giorni saranno in tanti a gridare al capolavoro e al miracolo assoluto, ieri sera la sala del Lido è stata molto tiepida.

Non importa. Ha sorriso alla macchina da presa, assonnato, arruffato ha chiesto un caffè “corto, per favore” ed è andato avanti. Dando risposte articolate e profonde sulla gestazione e il lavoro infinito, creativo, dietro questo film. I giornali, ammucchiati su una sedia fuori da questa stanza, le recensioni sulla Web della stampa estera talvolta sono feroci. Deve averle lette. In un telefono lasciato chissà dove arriveranno messaggi, ma lui sorride e spiega. E più le domande vanno a fondo più deve essere doloroso per lui il contrasto tra quello che il loro film voleva essere e quello che gli altri vi hanno visto. Ma niente trapela, solo un moto delle dita, un intreccio di gambe, un bisogno di respirare, di affacciarsi in corridoio, un sollievo quando vengono a prendere l’ordinazione per il pranzo che potrà consumare nella sua stanza da solo. Nella sua stanza da solo, è questo il sollievo. E il letto. “Ho un appuntamento con il letto appena possibile.” Dice ridendo, stemperando il disagio e intanto spiega ai giornalisti stranieri il senso dello strano titolo. Latina, città vicino Roma, è terra bonificata, terra di paludi, che sotto nasconde l’acqua stagnante e fa da contrasto con America: sogno di vita americana, bella, pulita, da ricchi. Questa dicotomia tra palude e vita sognata riflette il conflitto nelle nostre vite tra ciò che siamo e ciò che ci viene chiesto di essere. Un conflitto insostenibile al punto che talvolta, sotto una vita bella e comoda: bella macchina, bel  lavoro, bella famiglia, qualcosa comincia a scricchiolare e allora c’è chi si affaccia a vedere cosa è che scricchiola, e forse dopo non ce la farà a tenere tutto insieme, e chi, invece, decide di non guardare e di metterci sopra una bella pezza.

“Dipende pure dal tipo di pezza che uno ci mette” Conclude con un guizzo di ironia.

“E lei che pezza usa?” Rilancia il giornalista.

Elio ci pensa un istante, si capisce che gli piace la sfida.

“Beh posso risponderle in due modi: intanto il mio mestiere mi permette di riconoscere le pezze degli altri.  Di tanti tra insegnanti, medici, e altri mestieri fatti non per il piacere di farli, ma per compiacere qualcuno, per essere quello che a loro viene chiesto di essere.  Mentre io” Lampi di ironia “ con il mio lavoro posso vigliaccamente fuggire da un ruolo ad un altro. E mi salvo dall’alienazione.”

Alle televisioni ha raccontato com’è lavorare con i fratelli D’Innocenzo. “Scrivono delle sceneggiature meravigliose, ne ho lette tante, anche se solo due sono diventate film, ma poi sul set è come se quelle sceneggiature le avesse scritte qualcun altro. Le stravolgono. E di nuovo tutto cambia nel montaggio. Abbiamo girato tantissime scene di cui il film è solo una versione molto ridotta.  L’importante per loro non è girare cose che si vendano bene, ma scavare nel personaggio. Ho girato tante scene di crisi e di dolore, solo per cercare qualcosa di vero. L’importante è che sul set succeda qualcosa, sono aperti a quello che avviene. È un viaggio centrato sull’interiorità: un uomo che non aderisce all’idea di maschio alfa, un uomo delicato, gentile come reagisce uno così a quello che avverrà dopo?”  

“Non è strano lavorare con due registi, non vengono indicazioni contrastanti?”

 “Anche da uno stesso regista vengono indicazioni contraddittorie. Loro sono diversi, ma si muovono su un unico binario, senti che c’è una direzione unica: Fabio è il dionisiaco creatore e distruttore, Damiano è più apollineo: tiene le relazioni sul set. Ma possono benissimo scambiarsi i ruoli.”

Parla e spiega, e quel parlare allontana il ricordo della première e serve a ricomporre l’idea alla base del film: manipoliamo le nostre relazioni, le creiamo perché ci siano utili, schiacciamo chi abbiamo attorno in  ruoli prefissati. Questa persona mi serve per uscire la sera, quest’altra per andare al cinema, difficile sapere se quella persona è davvero così o se siamo noi che le abbiamo dato quel ruolo, se siamo noi ad averla schiacciata in quella funzione.

E così nella stanza chiusa delle TV è rimasto un peso, un fardello, questo buio delle relazioni umane,  questo modo di vedere la vita che schiaccia e opprime. Eppure anche questo è discutibile: che le cose siano così forse è solo uno sguardo dei registi, un loro modo di schiacciare la vita in un ruolo. Sarà davvero così la vita? O è solo il loro modo di vederla? Ci vuole un po’ di respiro. E ora la finestra aperta aiuta e con la stampa scritta va già meglio. 

“Questo film mi ha permesso di conoscere un mestiere: quello del dentista.  Deve avere molta cura, essere sempre delicato, avere un tocco femminile, per non far preoccupare i suoi pazienti. Fonte di grande stress, questo tenersi sempre dentro tutto. Infatti c’è un alto tasso di suicidi tra i dentisti.” Deve essere la risposta che si è preparato per riempire i silenzi. Da usare  ad ogni buona evenienza.

“L’attore, vuole sapere perché faccio l’attore? Chissà come è successo.” Ride “Ma ho anche una mia compagnia e suono musica rap insomma trovo tanti modi di sprecare il mio tempo.”

E torna ai Fratelli D’Innocenzo: è molto creativo lavorare con loro e non importa se poi sono tante le scene tagliate: anche quella finale dove saluta la famiglia, struggente e dolorosa, che gli ha strappato quattro ore di pianti, e lo ha lasciato a pezzi per due giorni, e poi arrivano i fratelli D’Innocenzo e dicono: “girata benissimo, è andata bene, però tanto non la mettiamo.”

All’inizio in sceneggiatura il film era un thriller incentrato sulla ricerca del colpevole ed era tutto molto chiaro. La storia iniziava dieci anni prima. E tutto si capiva. Poi durante le riprese la priorità è diventata un’altra: l’amore e come il bisogno che ne abbiamo ci porta a crearlo, a immaginare fantasmi d’amore, anche platonico e allora l’immaginazione ti può distruggere e, a quel punto, il film è precipitato tutto sulle sue spalle. E ora lui è qui anche per ricomporre con chiarezza i pezzi del puzzle. E i giornalisti stranieri annuiscono. Assorbono ogni parola: “ah adesso sì adesso è più chiaro.” Adesso che sanno cosa è Latina e come era stata scritta all’inizio la storia. “Ah ora sì.” Annuiscono. Anche se affermano di preferire il mistero. Non sono belli i film che ti spiegano tutto. Sono beli i film che lasciano tutto il compito allo spettatore anche se poi, grazie al cielo, c’è questo attore bravissimo che ha vinto tanti premi ( “mai a Venezia” dice lui con un sorriso) che ce lo sta spiegando. Ed Elio Germano racconta delle fonti in cui hanno cercato ispirazione:  i libri di Emmanuel Carrère e le opere di Kurosawa Kiyoshi .

“Faccio l’attore per passione questa è la mia motivazione, vengo dal teatro che è tutto a perdere, anche se forse” un piccolo grumo in gola “è meglio non metterci troppa passione in quello che fai, perché rischi di farti male.” (Ahi quanto deve avergli fatto male ieri sera quella sua testa pelata su cui sono caduti tiepidi applausi).  “Cosa mi piace del mio lavoro ? Che è un’arte collettiva e collettiva dovrebbe essere anche per il pubblico che lo vede in sala.”

“E come spiega la presenza di tanti film italiani di qualità qui a Venezia? È la rinascita del cinema italiano?”

“Forse è la crisi che rende più visibile il talento che è sempre stato lì.” Sorride“Forse lo streaming ha soddisfatto tutta la richiesta commerciale e ora i produttori capiscono che il pubblico in sala vuole anche altre cose. Mi piacerebbe che i film parlassero dei luoghi da dove vengono, perché un luogo come Latina ti rende anche ciò che sei. Vorrei che i film non fossero tutti omologati. Perché c’è cinema di alta qualità? Perché quando c’è crisi ci si ricorda dell’arte” dice con guizzo malinconico negli occhi pieni di luce. “Quando le cose diventano difficili si sente il bisogno degli artisti.”

Dalle finestre aperte arriva la brezza, il cielo azzurro, forse quando qualcosa scricchiola, quando qualcosa comincia a non andare bene, non sempre sotto c’è acqua che ristagna, forse c’è acqua azzurra che tremola piena di scaglie di luce, e un orizzonte aperto e misterioso, solo un po’ offuscato. Dove Elio Germano ora, appoggiato alla balaustra, tiene fermo lo sguardo.  “Sono gli altri che si accorgono di come sto dopo un film,  io non me ne accorgo.” Ha detto prima. Possiamo dire che Elio Germano sta bene. Non ci sono solo due modi di affrontare la vita: impazzendo o mettendoci sopra una pezza. Possono esserci anche  dignità e stile e tanto coraggio. Puntelli preziosi contro l’aria tiepida in sala. 


[1]Nota Redazionale. Lorenza Del Tosto, prende parte ai festival di cinema in qualità di interprete dall’inglese e dallo spagnolo. In seguito rielabora il materiale delle interviste con una sensibilità e acutezza assolutamente originali.

Vedi anche: Lezioni di festival: Ariaferma (2)

About Lorenza Del Tosto 29 Articles
Lorenza Del Tosto Vive a Roma con le sue figlie e il gatto Leo. Interprete di Conferenza free lance. Tra le sue passioni: le serate di chiacchiere con gli amici, il cinema, la letteratura e l’Aikido. Ha una rubrica Lost in Translation con ritratti di attori e registi per cui lavora. Ha vinto un’edizione del Premio Loria per racconti inediti ed è arrivata finalista in altri concorsi letterari.
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