di Tano Pirrone
«Tano, non so se lo sai, ma oggi è morto Belmondo… ti va di fare il coccodrillo per il blog?» la domanda ha il tono della richiesta e non dell’ordinazione, ma io sono stanchissimo, esausto e nella persona esausta la cosa più esausta è la testa, il cervello, le meningi… «Non lo so, stasera certamente no, non ho né tempo né energia; domattina, poi, ho il commercialista… vediamo se nel pomeriggio ci riesco.» Cerco di prendere tempo, non mi va di parlare di morti, ma la verità è che Jean Paul Belmondo era in un certo senso morto da tempo e, ne sono quasi certo, la sfangherà anche questa volta, da qualche parte, con qualche bellissima donna su una macchina scoperta degli anni Cinquanta o Sessanta.
Che coccodrillo vuoi scrivere per un personaggio come Jean Paul Belmondo, che prima di essere attore e tante altre cose è stato – insieme con altri tre o quattro – il modello di riferimento di tutta una generazione: lui era ciò che noi non potevamo essere, perché non avevamo la forza, la simpatia, la strafottenza, l’orgoglio, la fortuna di vivere le mille vite che aveva la possibilità di vivere, mischiando cinema, vita vissuta e teatro, spesso con confusione – più per noi che in lui -, ma vivaddio facendo una vita che nessuno può dire di non aver invidiato. Non potevamo esserlo anche perché lui e i suoi tre o quattro compagni erano più grandi, dieci anni, quello che corre fra un pischello senza peli e un giovanotto in tiro… e che tiro!
Nasce nell’Algeria francese da padre francese, figlio a sua volta di padre piemontese e madre siciliana: eccolo là il mixer che sbatti e sbatti tira fuori cocktail originalissimi, e del nostro indimenticabile Jean Paul tutto si può dire ma non che non avesse tutte le doti dell’indimenticabilità e dell’originalità.
Godard lo fissò per sempre come interprete ideale per il suo cinema innovatore e lo fece già duplice, triplice: ladro e aiuto regista a Cinecittà, assassino e comparsa occasionale sempre a Cinecittà e uomo in fuga dalla vita, senza più respiro!
Se pensate che io sia tipo di tirarla a lungo avete azzeccato, ma non nel caso delle cerimonie funebri, e degli equivalenti coccodrilli; le cerimonie sono noiose, bugiarde e i coccodrilli non possono essere la storia di una vita, ma la confessione di un amore e della tristezza di un addio. Esco a fumarmi un mozzicone di toscano, ma prima, in un orecchio vi racconto quello che scrisse Truffaut a proposito del premio Jean Vigo vinto dal film di Godard: «[…] L’Atalante […] termina con una scena in cui Jean Dasté e Dita Parlo si abbracciano su un letto. Quella notte devono senz’altro aver fatto un bambino. Questo bambino è il Belmondo di À bout de souffle.»
Au revoir, Jean-Paul… merci beaucoup!
Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle), 1960
La Ciociara, 1960 L’uomo di Rio, 1963
Quando torna l’inverno, 1962
La mia droga si chiama Julie, 1969
Lacrime di coccodrillo, stavolta veramente sicere e coinvolgenti. Un caro saluto a Tano