di Tano Pirrone
Francesco Rosi gira La tregua nel 1997. È il suo ultimo film, ha 75 anni e vivrà ancora fino al 2015. Rosi ha detto di lui: «La vita di un regista sono i suoi film. Non tutta la sua vita certo, ma quella parte di essa attraverso la quale ha espresso la sua relazione con il mondo, con le idee e con gli uomini». La stessa frase si potrebbe adattare all’autore del libro da cui il Rosi maturo e scarno della sua ultima opera trasse il soggetto del film: Primo Levi, l’autore dell’omonimo testo, considerato il seguito di Se questo è un uomo. Racconta con stupore, se possibile, il periodo dalla liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito russo al viaggio a piedi e in treno per lunghi incomprensibili giri fino alla città natale, Torino.
Lì era stato catturato nel 1944, scappato fra le bande partigiane, senza che avesse mai combattuto.
Il film si chiude con Primo Levi, mirabilmente interpretato da un ispirato John Turturro e ottimamente guidato da Rosi, che declama i versi introduttivi del suo altro libro Se questo è un uomo: «Considerate se questo è un uomo │ Che lavora nel fango │ Che non conosce pace │ Che lotta per mezzo pane │ Che muore per un sì o per un no.» I versi sono ispirati all’antica preghiera ebraica dello Shemà, che fa parte della liturgia quotidiana ebraica.
Il film è dedicato da Rosi a due storici protagonisti del cinema italiano (artigiani-artisti che fecero grande ed irripetibile quel cinema italiano). Le dediche sono per Pasqualino De Santis, storico direttore della fotografia e per Ruggero Mastroianni, montatore dalle cui mani uscirono capolavori senza tempo. Entrambi morirono durante le riprese, in Ucraina il primo, e prima che il film fosse completamente compiuto, il secondo.
Il Rosi dei grandi capolavori (Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, I magliari, Uomini contro, Il caso Mattei, Cristo si è fermato ad Eboli, Cadaveri eccellenti), carico di sdegno civile e di prezioso segno politico è lontano nel tempo; ma la maturità e la distanza temporale con i fatti raccontati sono soffertamente filtrati dal grandissimo regista napoletano, che napoletano seppe essere nel forte senso di appartenenza alle idee civili e politiche che segnarono profondamente la sua epoca, senza mai cedere al folklore e al dejà vu. Egli accompagna con complicità e comprensione i superstiti del campo nella lunga marcia verso i loro luoghi natali, Torino per Levi, Venezia, Roma, Messina… E riesce a far comprendere a noi, sazi e stanchi fruitori di immagini, che l’amore nasce dovunque, soprattutto dove sembra che non ce ne siano le condizioni.
La Tregua di Francesco Rosi, 1997. Con John Turturro (Primo Levi); Massimo Ghini (Cesare, materassaio ebreo del ghetto romano); Rade Šerbedžija (il Greco, lenone itinerante al seguito dell’esercito russo), Roberto Citran (musicista disincantato); Stefano Dionisi (Daniele, unico sopravvissuto fra trentuno della sua famiglia); Claudio Bisio (ladro rinchiuso a San Vittore, che con la speranza della libertà finisce appunto ad Auschwitz); Andy Luotto (messinese triste).
Breve e prezioso articolo che invoglia a barricarsi in casa lontano dal caldo e a (ri)vedere tutto Rosi. Mi ha fatto pensare il lasso temporale tra il 97 anno de La Tregua suo ultimo film e il 2015 anno della sua dipartita. “La vita di un regista sono i suoi film” eppure sono sicura che avrà trovato il modo di rendere ricchi anche i suoi ultimi lunghi anni senza film. Grazie Tano.