di Pino Moroni
Negli anni ’70 c’erano ancora al Greenwich Village, a New York, locali storici in cui si andava la sera a bere, con uno spuntino leggero fatto di piatti poveri. Lo spettacolo, però, ripagava di tutta la strada fatta per arrivare dal centro di Manhattan. Un’orchestrina jazz, con artisti di indiscussa fama (Chet Baker, Dizzy Gillespie, Miles Davis, David S. Ware, ecc.) suonava mentre qualcuno recitava le poesie della beat generation. Quelle stesse poesie, si ritrovavano, alternate a fotografie, scritte intorno a tappezzare il locale, difficili da leggere, tra semibotti e tavoli di legno, spesso a lume di candela. Quei locali erano ancora quelli in cui erano passati i protagonisti della beat generation e forse lì avevano scritto alcuni pezzi della loro epopea.
“Ho visto le migliori menti della mia generazione /distrutte dalla pazzia, affamate, nude, isteriche/trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…/ a fumare nel buio/soprannaturale di soffitte ad acqua/fredda fluttuando nelle cime delle città, contemplando jazz…/Ho visto le migliori menti della mia generazione che mangiavano fuoco in/hotel ridipinti…/che vagavano su e giù a mezzanotte per depositi ferroviari chiedendosi dove andare, e andavano, senza lasciare cuori spezzati.” (da “Howl” Urlo di Allen Ginsberg).
Ma i padri, i teorici della beat generation erano ormai lontani; morti (Neal Cassady, Jack Kerouac) o perduti per il mondo (Gregory Corso, Allen Ginsberg). Il Jazz, invece, di quel periodo viveva ancora un decennio di grande creatività, e ben pagato suonava per folle di amanti affezionati ed affamati turisti europei. La beat generation si era sviluppata come movimento artistico, poetico e letterario dal 1947 in poi. Il termine beat inventato da Jack Kerouac e lanciato da Go (Vai), un racconto di John Holmes, infine era diventato celebre per un articolo del New York Times “This is the beat generation” nel 1952.
Difficile dire se beat avesse un significato positivo, preso da beatitudo, quella dello spiritualismo zen o delle droghe più svariate, o beat come sconfitto in partenza, visto che la società americana aveva reagito duramente contro il movimento che combatteva gli schemi imposti non derogabili. Il centro era stato New York, con Allen Ginsberg, Jack Kerouak e Neal Cassady, che sentivano il rischio di una guerra atomica, il peso di una società capitalistica, la caccia alle streghe (marxiste), la discriminazione sessuale e la crescita del potere dei media. I beat, che emergevano dagli hipsters (i distaccati esistenzialisti statunitensi), molto più sofferenti e focosi, volevano scappare, viaggiare, attraverso gli spazi naturali, per cercare da soli nuove regole e stili di vita. Il successo del libro di Kerouac (morto a soli 47 anni nel 1969) On the road (Sulla strada) avrebbe dato vita poi al movimento dei figli dei fiori, alle lotte contro la guerra del Vietnam, al movimento degli studenti e delle rivendicazioni razziali. Il viaggio verso sud di Sal (Jack Kerouac) e Dean (Neal Cassady) lungo le strade infinite del Texas e del Messico, in definitiva, era un viaggio verso il nulla, nel quale importante non era arrivare, ma andare, muoversi nella speranza, comunque vana, di sfuggire ad un ansia ed un male di vivere sempre crescenti, malgrado le rischiose vie di fuga offerte dall’alcool e dalle droghe.
“Con l’arrivo di Dean Moriarty ebbe inizio quella parte della mia vita che si potrebbe chiamare la mia vita lungo la strada. Prima di allora avevo spesso sognato di andare nel west per vedere il continente, sempre facendo piani vaghi e senza mai partire… Che cos’è quella sensazione quando ci si allontana dalle persone e loro restano indietro sulla pianura finché le si vede appena come macchioline che si disperdono? E’ il mondo troppo vasto che ci sovrasta ed è l’addio. Ma noi puntiamo avanti verso la prossima pazzesca avventura sotto le stelle.” (da “On the road” di Jack Kerouac).
Con lo spostamento, dopo una fase di viaggi per gli USA, a San Francisco, ai fondatori si aggiunsero Gary Snyder, Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti, che con la sua City Light Bookstore pubblicò alcune opere beat, tra cui il poema Howl, subito sequestrato e per cui fu arrestato, che divenne poi il manifesto di questo movimento importante per i giovani di tutto il mondo. Giunse anche in Italia attraverso le traduzioni di Fernanda Pivano a metà degli anni ’60. Ma beat era anche il significato onomatopeico dato al battito, al ritmo della musica jazz che si ascoltava in quegli anni e faceva scuola, una brevissima frase di due note usata come segnale per terminare un brano (be bop), che, insieme alle cadenze dei versi delle poesie beat ed al metodo di prosa spontanea, inventata da Kerouac, connotava le tecniche della filosofia beat.
“Poiché il tempo è l’essenza della purezza del discorso, il linguaggio è un indisturbato flusso della mente, di segrete ideeparole personali, per esprimere (come fanno i musicisti di jazz) il soggetto dell’immagine…occorre servirsi di spacchi che separano il respiro creativo come il musicista di jazz che prende fiato tra le varie frasi suonate”. (Jack Kerouac per spiegare “Il metodo”).
Jack Kerouac
Così la prosa spontanea diventava come il jazz, una serie ininterrotta di variazioni intorno ad un tema centrale che a volte riusciva difficile anche ritrovare. Il jazz di San Francisco , frenetico, sudato, vissuto e catartico (come quello di Charlie Parker), insieme alla cadenza dei versi della poesia di Ginsberg ed ai versi sconnessi di Mexico City e di Big Sur di Kerouac diventavano Jam Sessions infuocate, trasfigurate in una dimensione mitica, oggetto di amore folle per gli adepti della filosofia beat.
In Solitudine messicana Jack Kerouak aveva già intuito quella sensazione di vuoto, in una società che sarebbe diventata debole, senza più valori umani e di cultura, proiettata verso la disgregazione.
“E sono uno straniero infelice/contento di scappare per le strade del Messico/I miei amici sono morti su di me, le mie/amanti svanite, le puttane bandite…/Se mi ubriaco mi viene sete/se cammino il piede mi cede/se sorrido la mia maschera è una farsa/ se piango non sono che un bambino/se mi ricordo sono bugiardo/se scrivo la scrittura è passata/se muoio il morire è finito/se vivo è appena cominciato/se aspetto l’attesa è più lunga/se vado l’andare è andato…”.
Di tutti i beatnik, come si chiamavano gli appartenenti a quel movimento, era rimasto vivo solo Lawrence Ferlinghetti, morto quest’anno a 102 anni. Un intellettuale ebreo di origini francoitaliane, poeta, artista, pacifista e propugnatore della controcultura americana diventata negli anni ’60 mondiale. Scrisse critica letteraria e dipinse, con opere esposte in gallerie e musei di tutto il mondo, fino a presentare in Italia nel 2010 la mostra 60 anni di pitture. Un amante della natura che ha vissuto i suoi ultimi anni, in una spiritualità liberale, sulla costa selvaggia della California, a Big Sur. La sua raccolta poetica più famosa è stata A Coney Island of the mind.
“Il mondo è un gran bel posto/per nascerci/se non date importanza alla felicità/che non è sempre/tutto questo spasso…/Il mondo è un gran bel posto/per nascerci/se non date importanza alla gente che muore/continuamente…ma poi proprio in mezzo a tutto quanto/ arriva sorridente il/beccamorto”.
“L’universo trattiene il respiro/c’è silenzio nell’aria/la vita pulsa ovunque/ la cosa chiamata morte non esiste” (da Un mucchio di immagini spezzate).
Il cinema ne ha parlato nel momento della sua diffusione come filosofia anticonformista, in funzione di contestazione generale, soprattutto negli anni ’60 con una serie di film: Pull my Daisy (1959) di Robert Frank ed Alfred Leslie da Beat generation di Jack Kerouac; The subterraneans (1960) di Ranald Mc Dougall dal libro omonimo di Kerouac; Chappaqua (1966) di Conrad Rooks, con attori William Burroughs, Allen Ginsberg, Jean Louis Barrault ed altri beatnik; Me and My Brother (1968) di Robert Frank, scritto da Allen Ginsberg, Sam Shepard, Peter Orlowski, affiliati beatnik.
Nel 1991 David Cronenberg, grande regista di rottura degli schemi hollywoodiani che appiattiscono le idee, dirige provocatoriamente The naked lunch, tratto dal romanzo più dirompente del gruppo di autoridella beat generation Pasto nudo di Williams S. Burroughs, considerato da molti critici un genio, Poi dal 2010, in una epoca di spaventoso riflusso della cultura, si sente il bisogno di ritrovare e cercare di diffondere le filosofie scritte nei più importanti romanzi della Beat generation: Urlo (2010)di Robert Epstein e Jeffrey Friedman da Howl di Ginsbergs; On the road, (2012) di Walter Salles, tratto dal libro omonimo di Jack Kerouac; Giovani ribelli (2013) di John Krokidas da E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche di Jack Kerouac e William Burroughs; Big Sur (2013) di Michael Polish su un inedito di Jean Marc Barr sulla Beat generation.