di Pino Moroni
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Jake una volta ha detto: “A volte il pensiero è più vicino alla verità, alla realtà, di un’azione. Puoi dire o fare qualunque cosa, non puoi fingere un pensiero”, frase cardine, tra il presente ed il passato, tra la vita e la morte, del libro Sto pensando di finirla qui di Iain Reid. Ora diventato anche il titolo dell’ultimo film, intrigante, psicotico, difficile da interpretare, costruito con una temporalità non lineare, del regista Charlie Kaufman, elaboratore, con altre sceneggiature molto apprezzate, di teorie della mente.
I suoi film precedenti Essere John Malkovich (1999) e Il ladro di Orchidee (2002) di Spike Jonze (Confessioni di una mente pericolosa (2002) di George Clooney, Se mi lasci ti cancello (2004) di Michel Gondry, Synecdoche New York (2008) e Anomalisa (2015) dello stesso Kaufman, sono sempre frutto di una elaborazione personale di Kaufman sulla natura umana, su alcuni processi particolari della mente, come i temi della doppia personalità, dei molteplici Io, della memoria come esistenza, delle categorie freudiane Io, Super-io, Es.
In “Sto pensando di finirla qui” è la mente-memoria che regola la sceneggiatura: la memoria non ha una forma lineare, ma avviene per associazione di vari elementi messi in archivio.
Elementi che si mescolano, vanno a sovrapporsi, non sono soltanto i ricordi depositati ma anche le fantasie creative, i sogni, le nostalgie per qualcosa anche non avvenuto ma desiderato. La memoria in questo caso impedisce la disperazione, alimenta la speranza del presente.
Purtroppo non si può parlare di questo film senza fare spoiler. Il perno di tutta una vita non è il veramente vissuto ma il pensiero di quello che si poteva vivere, le opportunità perdute (una o due in particolare) nel costruire un rapporto duraturo tra un uomo ed una donna.
Nel film Lucy e Jake sono una coppia, compagni di vita da appena sette settimane e dalla città vanno a fare la prima visita ai genitori di lui che vivono in una remota fattoria in campagna. Intanto un vecchio bidello sta andando al lavoro in un Liceo.
In un paesaggio livido e spettrale, con una natura coperta di neve, mentre comincia a nevischiare i due in macchina iniziano un dialogo per conoscersi meglio, in una scorribanda di pensieri alti che toccano il lavoro, i gusti estetici, letterari, musicali, i loro concetti di vita.
E’ il cogito ergo sum di Cartesio, filo conduttore delle idee di Kaufman. Ma l’uomo e la donna sono in fondo soli con i loro pensieri, distanti, sconosciuti. Soprattutto Lucy pensa più volte che sia il caso di finirla lì.
Durante la visita si assiste a piccoli sbalzi temporali, con i genitori di Jake che diventano sempre più vecchi e muoiono assistiti teneramente dal figlio. Lucy vorrebbe ritornare prima possibile in città perché la mattina dopo dovrebbe lavorare ad una tesina di fisica (quindi è una laureata), ma in un altro momento dice che è una cameriera, Louisa (quindi è un’altra donna in un’altra visita). Jake invece, impegnato con i suoi, stenta a partire.
Nel difficile viaggio di ritorno sotto una tormenta di neve si fermano prima ad un chiosco di gelati immerso nella neve e poi al Liceo di Jake, dove il vecchio bidello sta terminando il suo lavoro di pulizie, prima di tornare a casa. I due si trasformano in due ballerini del musical Oklahoma, rappresentato più volte nello spettacolo di fine anno dagli studenti dello stesso Liceo.
Solo attraverso una decodificazione finale si capisce che la storia è un lungo flashback, intriso di rimpianti di un passato mai avvenuto. I ricordi sono solo le fantasie che, in una vita, fatta di giorni tutti eguali, con ritorni a casa pieni di solitudine, accompagnano l’invecchiamento di Jake.