di Lorenza Del Tosto
Ponzaracconta.it
Il film di Konchalovsky presentato a Venezia 77, non sappiamo quando potremo vederlo. Nell’attesa possiamo leggere il ritratto che Lorenza ha delineato dopo l’intervista, a cui ha partecipato come interprete. E’ così vivida la sua descrizione e così pregnante, che ci sembra di essere lì presenti anche noi, partecipi dell’atmosfera emotiva di quell’incontro, tesi a catturare e a collegare tra loro tutti gli elementi che vengono filtrati man mano con grande empatia.
Cosa era quell’aura? Ci chiediamo. Cosa ci ha colpito tanto? Sappiamo solo di essere stati folgorati poco fa mentre, distratti dalla pioggia, stretti tra macchine da presa, aspettavamo in una stanzetta al sesto piano dell’Hotel Excelsior, al Lido di Venezia, che pare abbia riaperto solo su insistenza della Mostra internazionale d’arte cinematografica, alla sua 77a edizione e la prima dell’era Covid.
Qui, in albergo, sono tutti più gentili quest’anno, senza lo stress della folla di personaggi in cerca di fama, curiosi e intrusi variopinti che si mescolano ai divi famosi, su e giù, nella hall e nelle terrazze. Gentili inservienti ci puntano l’apparecchio per il rilevamento della febbre con delicatezza come se fossimo fantasmi, noi pochi che qui ci aggiriamo, e a puntarci troppo forte potremmo sparire e l’Excelsior tornare a sprofondare nel vuoto deserto del lockdown.
Il cielo, là fuori, conserva tracce del diluvio che si è scatenato stamani, primo e unico temporale di un festival soleggiato. Durante la proiezione di Cari Compagni!
(Dorogie Tovarishchi!), il film di AndrejKonchalovskij per cui siamo qui convocati, l’acqua si abbatteva furiosa sul tetto e le transenne della sala, sulle nostre teste, e i tuoni si confondevano col sibilo dei proiettili e le urla della folla davanti alla fabbrica di locomotive a Novocherkassk durante la rivolta operaia del 1962 di cui il film racconta la storia.
Non avremmo immaginato che, in una cupa mattina di pioggia, un film in bianco e nero su una fervente stalinista, in formato classico 1,33, potesse incantarci tanto.
Anche la pioggia che, all’inizio, con i suoi scroscioni copriva le voci dei protagonisti, un russo a noi incomprensibile ma tanto musicale e suadente, è sembrata infine cadere nella malia e si è fatta tutt’uno con la storia.
Per esaltare, nella sua furia, l’intensità dei volti e dei gesti, la durezza e lo sgomento di Lyudmila, la protagonista interpretata da una magnifica Julia Vysotskaya, moglie del regista, che di fronte alla repressione della rivolta nel sangue, vede cadere le sue certezze ma mantiene il rigore.
In sala è corso un fremito di nostalgia per l’innocenza di quella fede, per la possibilità di credere fermamente in qualcosa.
Come dirà Konchalovskij più tardi, il film è un omaggio alla purezza di una generazione di comunisti in Russia, ma anche in Francia ed in Italia, che forse ingenui, ma sinceri, hanno avuto fede. A cui si aggiunge un’altra nostalgia, più moderna, per la folla gremita che si accalca sullo schermo. È un’emozione condivisa da tanti, qui al Festival, per chi sullo schermo è libero di abbracciarsi e di baciarsi, e in certi momenti di oblio ci si ritrova ad agitarsi sulle poltrone.
– Insomma cosa fate così attaccati, è pericoloso non lo sapete? – viene da gridare.
L’occhio del regista ama Julia Vysotskaya e, in sala, noi e la pioggia accompagniamo la macchina da presa nella sua danza d’amore che trascina con sé il resto degli attori, quasi tutti presi dalla strada come l’ironica, malinconica figura del nonno, che in casa indossa l’antico costume da cosacco, lui ha visto gli orrori del regime, e, chiuso in casa, sembra custodire nella sua persona la lucidità e la poesia di un mondo scomparso
Mentre la macchina da presa accompagna l’andirivieni della protagonista in cerca della figlia scomparsa, nella nostra testa è affiorato il ricordo di notizie lette su Julia Vysotskaya. Sappiamo che è la quinta moglie di Andrej Konchalovskij, dicono che, con lei, lui abbia finalmente messo la testa a posto. Hanno due figli: Maria e Petr, e su Wikipedia (in inglese), si legge che Maria è in coma dal 2013. Un incidente banale di macchina in Francia, la ragazza di 14 anni senza la cintura, il regista era al volante. Ora quella notizia è tornata a ossessionarci, proviamo ad immaginare cosa voglia dire per lei interpretare il ruolo di Lyudmila che non trova più sua figlia dopo le rivolte. Una figlia, che ribellandosi alla madre e alle sue convinzioni, aveva deciso di partecipare allo sciopero. Inoltre Novocherkassk, dove si svolge la storia, è la città natale dell’attrice. Cosa avrà significato per lei questo ruolo?
Siffatto quesito ci ponevamo poco fa nella stanzetta del Hotel Excelsior, cercando di non intralciare il lavoro altrui, mentre, soffocando nella mascherina, guardavamo la pioggia oltre i vetri e poi c’è stato un movimento convulso nella stanza.
Silenzio e agitazione, uno spazio che si apre e due figure che avanzano, da cui emana un’energia, una vibrazione, una luce dura di diamante che si irradia tutto attorno. Andrej Konchalovskij con il suo immancabile cappello in testa, giacca di lino beige, e pantaloni di lino blu, inonda il silenzio della stanza, sovrasta la pioggia con le sue battute, scherza e ride, parla italiano e inglese con ironia brillante.
È uno dei più grandi registi russi degli ultimi decenni, già collaboratore di Andrej Tarkovskij, attivo in Unione sovietica e poi celebre in tutto il mondo con trasposizioni delle opere di Checov e racconti della vita ai tempi dell’URSS, fratello del regista Nikita Michalkov.
Eppure la luce sembra venire da lei, Julia Vysotskaya, slanciata e severa accanto a lui. Tailleur pantalone color panna, alti sandali in tinta, capelli biondi lisci, viso duro, sguardo intenso.
La stessa intensità dello schermo, la macchina da presa, nella sua danza d’amore, deve averne estratto l’essenza più profonda. È difficile, in genere, che quello che la macchina da presa regala, la realtà lo confermi. Ma ora la realtà sembra ancora più grande, più intensa.
C’è qualcosa di diverso in lei, in loro, quell’aura a cui non riusciamo a dare un nome, forse è il mondo russo o qualcosa che viene dal teatro, la gente di teatro sembra sempre più vera di quella del cinema, con più corpo e più sostanza, potendo fare affidamento solo su ciò che sono. O è qualcosa che passa dall’uno all’altro. Nel modo in cui lui brillante, ironico istrionico, padrone della scena, si illumina della luce di lei dura e silente al suo fianco, un sorriso che appare solo a tratti fugace, come brevi squarci di sole in questo cielo in tempesta.
Li seguiamo nella stanza delle interviste, dove ora siedono davanti ai giornalisti, uno accanto all’altra e non separati come inizialmente previsto. Le interviste sono ridotte al minimo in questi tempi di Covid ed è con lui, con il grande Andrei, che tutti vogliono parlare. Le domande incalzano veloci. I giornalisti sussurrano, tra loro, che Konchalovskij, finalmente è tornato a fare un film compiuto, non tutti sembrano aver apprezzato il Leone d’argento vinto in una precedente edizione. Konchalovskij è felice di intrattenerli. È di casa lui a Venezia: ci è venuto la prima volta a 25 anni proprio in quel lontano 1962, l’anno della rivolta placata nel sangue che il film racconta. All’epoca era rimasto sconcertato e abbagliato dalle tante luci dell’albergo e delle strade, lui che veniva da un’Unione Sovietica dove le luci si accendevano solo nei due giorni comandati delle feste: il 7 novembre e il 1° maggio. Ma da allora tante altre luci si sono accese per lui.
A chi gli chiede se il bianco e nero del film, il formato classico e non panoramico (a cui ci ha abituato il cinema americano) e la fede stalinista di Lyudmila non rivelino una nostalgia in Russia per i tempi passati, Konchalovskij risponde ridendo che la nostalgia non la sente nessuno. Il bianco e nero è un omaggio ai film di quegli anni e il formato classico una sua predilezione perché permette di inquadrare il cielo sopra la testa dei personaggi e non si è obbligati a tagliarlo fuori.
Nega che il film contenga un’allusione all’autunno caldo che ci aspetta per le conseguenze economiche del Covid.
– I film crescono molto lentamente dentro di me. Ho pensato a questo film per dieci anni prima di realizzarlo e ogni riferimento ad eventi contemporanei, pertanto, è puramente casuale. La storia si sviluppa in cicli e le rivolte sociali ciclicamente tornano, perché il potere è sempre uguale, il potere vuole solo mantenersi. La mia macchina da presa non si muove. È sempre fissa. Con ogni nuovo film il mio desiderio profondo è imparare e capire cosa è il cinema.
Il film attinge per buona parte ai resoconti stenografici delle riunioni di partito dell’epoca e lui si era chiesto a chi mai sarebbe interessato, oggi che la mente umana è totalmente distorta da internet dove tutto è commercio e tutto si banalizza, anche la verità, e la gente è stufa e satura di informazione. Ma poi trova da solo la risposta più semplice per spiegare l’emozione suscitata dal film:
“Quando ami il tuo personaggio, il film, e ogni racconto, diventa poetico, anche se basato su trascrizioni stenografiche”.
Il personaggio amato è lì. Seduta, schiva e altera accanto a lui, segue attentissima ogni scambio, nel suo silenzio dà vita e vigore alla voce del marito, è la luce che lo illumina, come la sua protagonista illumina il film ma resta al di là di una barriera che intimidisce.
Tutti domani scriveranno di lei: della sua intensità che dà la misura dell’intensità del film. In un festival pieno di donne, di grandi prove femminili davanti e dietro la macchina da presa, tutti parlano di una Coppa Volpi per lei eppure proprio quell’intensità sembra trattenerli, fermarli, anche se capisce e si esprime in italiano, davanti ad un muro che la separa.
Per lei c’è una sola domanda ed è la domanda di sempre: cosa si prova a portare tutto il peso di un film sulle proprie spalle? Potrebbero chiedere a Konchalovsky se è stato grazie alla sua protagonista che il film ha preso forma compiuta, ha acquistato potenza e spessore, ma non vogliono o non osano e lei, che ci siede vicino, risponde con uno slancio e una tensione nel corpo, come se dovesse infondere una forza immensa in quelle poche parole:
– Portare tutto il peso di un film è un sogno, non una sfida. È ciò a cui tutti ambiscono nella mia professione. Non è il primo film che faccio con il Maestro ed è questa la grande gioia: Paradise e La casa dei matti sono stati viaggi che mi hanno condotto da qualche parte, lontano. Non sarei stata capace di compiere quel viaggio senza il Maestro – conclude.
Poi in un istante l’incontro è finito, in un arruffo di voci e gesti convulsi i due sono fuori della sala, e una luce si spegne, resta un’ultima scia, un’impressione di maestosità e riserbo.
Restiamo lì ancora un istante, stupiti dalla risposta in cui la divina attrice riconosce ogni merito al suo regista. forse è un modo per restare lontana e impenetrabile e mantenere la propria forza. Non disperdere la propria arte.
Sarà questa la chiave dell’aura? Il rigore del riserbo per proteggere se stessi dall’esuberanza di un marito immenso, e, come per la sua Lyudmila, un mezzo per restare saldi di fronte alla perdita di un figlio e al crollo delle certezze.
Chissà.
Una lezione di vita che, pur misteriosa, varrà la pena conservare.