la Redazione
Riportiamo qui l’articolo di Paolo Mereghetti, pubblicato in data odierna su Il Corriere della sera, di cui condividiamo l’analisi.
Un’edizione di Venezia promossa a pieni voti fino all’altro ieri, dove tutto ha funzionato alla perfezione, distanziamenti sociali e prenotazioni dei posti compresi, macchiata da una giuria che non si è dimostrata all’altezza di una Mostra d’arte cinematografica (come non ci stancheremo mai di sottolineare si autodefinisce Venezia). Nomadland non è certo un capolavoro, ma un buon film medio, furbetto (non sarebbe stato più coraggioso approfondire la crisi economica che ha spinto la protagonista a vivere in un camper piuttosto che tessere solo l’elogio della vita nomade?), ottimamente recitato ma diretto da una regista che sembra chiedersi solo se inquadrare un tramonto o scegliere l’alba.
Per non parlare del premio alla regia dato a un film inerte come il giapponese, dove proprio la messa in scena latita dalla prima all’ultima inquadratura, o del Gran premio che è andato al più reazionario di tutti i titoli in concorso, dove il fatto che i militari golpisti sono più crudeli e feroci dei rivoluzionari assassini non basta a far digerire un film che mostra torture e sevizie con un compiacimento e una empatia di evidente immoralità. Forse, invece di preoccuparsi solo di inclusioni e affini, sarebbe il caso di tornare a riflettere sui temi centrali del cinema: cosa è giusto filmare e come si deve farlo. Infine l’Italia, che esce malconcia da questo verdetto, visto che il premio per il miglior attore sa molto di contentino. Favino è troppo intelligente per non stupirsi di una Coppa Volpi che va a un personaggio secondario (come è il suo) piuttosto che ai due veri protagonisti, entrambi notevoli, di un film non riuscito. Non è la prima volta che una giuria rovina il buono costruito dal festival (Scorsese non avrà certo dimenticato cosa successe a Quei bravi ragazzi) ma forse sarebbe il caso di aprire una riflessione un po’ più seria sulle ragioni che spingono a privilegiare il glamour al posto delle competenze. Soprattutto in chi ha il compito di attribuire premi importanti come i Leoni.