di Antonio Celli
Il marchese di Cazzuola è un imprenditore edile di prima generazione, pescecane tra pescecani nella Roma del dopoguerra, uno che non ama i regolamenti («’e fognature? E er Tevere che ce sta’ ‘a fa’?») ne’ le leggi ( ..licenzialo. Faje er conto de tutto quello che je spetta e daje ‘a metà).
Il marchese di Cazzuola si chiama Romolo Catenacci , straordinario caso di omonimia con il contemporaneo Romolo Catenacci, fascistissimo camerata cantore delle gesta del Duce nella trasmissione radiofonica “Alto gradimento”; anche il marchese ha, nello salotto, sul camino, l’effige bronzea di Lui, che veglia insonne ( ..ma adesso A NOI, come si diceva ai bei tempi).
Il marchese di Cazzuola ha il corpo ed il sembiante di Aldo Fabrizi , perfetta maschera del romano ruspante , dal fisico sapientemente costruito con generose dosi di porchetta e rigatoni con pajata; maschera che appartiene per diritto alla nobile tradizione del teatro dialettale romanesco, ma che è stata elaborata nelle sue forme più alte da Rabelais [1], e a questo autore rimanda la particolare tecnica che Scola applica nel presentare il personaggio :
( Catenacci a Gianni Perego: ..il grande patrocinatore in cassazione è stato eletto deputato e per non dare andito a critiche mi ha scaricato con la banale scusa che avrei commesso questi reati:
-scorruzzione di pubblici sottufficiali
-frodi svariate
-corruzzione illecita diciamo di un arbitro
-raggiro dell’altrui incredulità
-false licenze comunali
-peculato, che io non so manco che vo’ ddì
-bancarotta flautulenta
-sette appropriazioni indebbitee ..che artro?
-undici approfitti de reggime
eee… cinque atti in falso pubblico
continua Perego
-e due operai morti nei cantieri per mancata applicazione delle norme di sicurezza
Catenacci :…ebbè?…)
Si tratta della tecnica dell’Elenco , o della Lista, di cui Rabelais è riconosciuto, se non l’inventore, uno dei massimi interpreti letterari[2]: la utilizza costantemente, in particolare per spingere i significati verso una deriva grottesca e surreale, con serie potenzialmente aperte e prolungabili all’infinito ed esiti stranianti e squilibranti [3].
Questa associazione, tra proposta di un personaggio-maschera di derivazione alta + tecnica di scrittura peculiare del creatore del personaggio , ci suggerisce riflessioni sulle aperture che chi partecipa alla stesura della sceneggiatura vuole dare alla propria opera; la molteplicità dei piani su cui si articola la narrazione, i rimandi ad altri ambiti espressivi, la presenza continua dell’esterno, cronaca o storia, i riferimenti costanti al Cinema sia come Arte che come luogo in cui si attua un’esperienza, il gioco delle relazioni che vengono tessute nel raccontare producono una costante possibilità di letture e di domande, mai definitive. E questo Scola lo mette in atto continuamente.
Ma torniamo al marchese.
L’attore Aldo Fabrizi era abbastanza “chiaccherato” per simpatie fasciste, superate con la generosa e fortemente voluta interpretazione della parte di don Pietro Pellegrini in Roma città aperta: l’evoluzione lo riscatta. Forse però la maliziosa ironia di Scola non lascia cadere l’opportunità di ridargli un volto appropriato. Secondo me, però, sbaglieremmo se pensassimo che con lui ha voluto rappresentare solo la figura del pescecane affarista e ignorante, simpatizzante di un Regime ormai travolto dalla Storia, un personaggio che in fondo si adatta e prospera in ogni mutazione di contesto, corrotto e corruttore com’è. Vediamo perché.
Siamo di nuovo nella villa del marchese, ed una gru da cantiere lo trasporta e lo deposita in terra, chiuso in una gabbia. Gianni Perego è seduto sotto il portico, ad un tavolino con tazza di caffè davanti, aria annoiata e non ben disposta verso il suocero, che dà inizio ad un monologo: le parole del Catenacci sono seguite e segnate dagli sguardi di Gianni, che mutano dal disgustato all’attento, al riflessivo.
-…. Er ricco nun c’ha bbisogno de pensà..è ricco e bbasta…. da ‘sta casa so spariti tutti, quarcuno è scappato,..quarcuno è morto..invece io e te stamo ancora qua…e chi ce po’ staccà a nojartri due .. nessuno…alegro e nun piagne.. semo rimasti soli e staremo sempre assieme io e tte.. perché tu..tu nun scappi.. e io nun moro, hai capito..nun moro.. hai capito, nun moro
sull’eco di queste ultime parole si formano, in bianco e nero, le immagini degli ultimi momenti della lotta di resistenza , i giovani partigiani felici si abbracciano ecc ecc Quella descritta potrebbe essere una situazione “reale” , parte dei difficili rapporti tra i due; qualcosa però, sin dall’inizio della scena, potrebbe farci pensare anche ad altre possibilità.
La rumorosa gru che deposita in terra il Catenacci: già l’abbiamo vista in azione, portatrice di grascia e porchette imbandierate, simbolo delle attività imprenditoriali del marchese, cafonata grottesca al pudore dei nostri occhi; ma nel nuovo contesto, preludio al soliloquio del marchese, come non pensare alla “machina” , nel Teatro classico, che fa calare giù dall’alto la divinità che porterà parole od atti risolutivi dei nodi tragici, e se nei fatti qui non sarà così, la sua presenza potrà comunque indicare l’epifania, il manifestarsi del daimon che guida gli atti dei due. Questa ipotesi giustificherebbe il senso del monologo, le affermazioni “..tu nun scappi .. e io nun moro..hai capito.. nun moro”; non si sfugge alla propria più profonda essenza , che Gianni sembrerebbe finalmente portare alla propria consapevolezza, e che è identica nei due : uno spirito vitale ferino, pre sociale, insofferente di leggi e limiti, indirizzato all’ esclusivo soddisfacimento del SE attraverso la sua affermazione, indifferente a persone e ideali. Proseguendo questa lettura, la mia impressione è che Scola faccia una distinzione molto netta tra i due: sono governati, sì, dallo stesso daimon, ma nell’uno tutto è palese, dichiarato, manifesto , senza maschere, e soprattutto senza possibilità di controllo o inibizione di Ragione, mentre nell’altro, che ha la conoscenza del Bene e del Male, le scelte sono Colpa e condanna.
Arrivati a questo punto, per concludere, vorrei richiamare alcune righe tratte dalla quinta delle “Lezioni americane” di Italo Calvino, la Molteplicità:
dopo una lunga citazione tratta dal Pasticciaccio gaddiano, Calvino scrive.
“Ho voluto cominciare con questa citazione perché mi pare che si presti molto bene a introdurre il tema della mia conferenza, che è il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”. [4]
La Molteplicità non appartiene solo allo specifico letterario, e Scola lo dimostra.
Note
[1] François Rabelais. Gargantua e Pantagruele. Einaudi, 2017
[2] Per dare un’idea delle liste di Rabelais, ne riportiamo solo un segmento,
qui di seguito:
“Uova fritte, affogate, sperdute, sode, barzotte, al tegame, in tortino,
frullate, ripiene, strapazzate, al latte di gallina, sotto cenere, gettate pel
camino, incatramate”.
[3] Umberto Eco. Vertigine della lista, Bompiani 2019
[4] Italo Calvino. Lezioni Americane, Mondadori, 1993