di Gianni Sarro
A metà degli anni sessanta sbarca in Europa un attore americano, non tra i più noti. Ha alle spalle una decina di film e la parte di protagonista in una serie western della CBS, intitolata Gli uomini della prateria. A fargli varcare l’oceano è stata la chiamata di un regista italiano, che ha diretto il suo primo film nel 1961 (Il colosso di Rodi). L’attore è Clint Eastwood, il regista Sergio Leone. Dal loro incontro nasce la fortuna di entrambi. Leone dirige Eastwood in tre film, la cosiddetta trilogia del dollaro, Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il Buono, il brutto e il cattivo (1966). Tre successi planetari. Tra regista ed attore nonostante il successo, non tutto fila liscio. Memorabile la descrizione di Eastwood da parte di Leone: «Mi piace Clint Eastwood perché è un attore che ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza cappello». Da parte sua Eastwood è stato più sottile, ma non meno caustico, quando nel corso degli anni ha più volte sottolineato come la caratterizzazione del silente e letale pistolero protagonista della trilogia del dollaro è quasi esclusivamente merito suo. Dopo l’esperienza con Leone, Eastwood varca nuovamente l’oceano. Hollywood lo accoglie a braccia aperte. E nel 1968, con L’uomo dalla cravatta di cuoio, Eastwood fa il secondo incontro decisivo della sua carriera. Quello con Don Siegel, maestro del cinema poliziesco e d’azione americano. Nell’anno di grazia 1971 Eastwood interpreta due dei film di maggior successo della sua carriera La notte brava del soldato Jonathan e soprattutto Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, grazie al quale diventa una star di prima grandezza. Tuttavia la ragione che rende fondamentale l’incontro con Don Siegel è quella che Eastwood capisce di essere affascinato dalla regia. Nasce così uno dei più grandi registi dell’era contemporanea. Vincitore di cinque Oscar, e, a dispetto dei novant’anni di età, tutt’ora acclamatissimo dalla critica, come dimostrano i recenti Sully (2016) e Il corriere-The Mule (2018).
Lo stile registico di Clint Eastwood ha le sue radici nel cinema classico. Di quello ricorrono le forme tipiche, come il riferimento costante ai generi (western, dramma sentimentale ecc.) e le strutture fondamentali del montaggio lontano dall’uso di effetti, forzature tecnologiche e intensified continuity, (ossia la rinuncia ad un ritmo serrato ottenuto abbassando la durata media delle inquadrature, all’intensificazione dei movimenti di macchina non legati agli spostamenti dei soggetti ripresi e alla rarefazione o assenza dei piani d’ambientamento). Per molto tempo ascrivere il cinema di Eastwood nell’ambito della classicità ha di fatto escluso la presenza di un’analisi accurata sui suoi film da molti testi sul nuovo cinema americano. Tuttavia col passare degli anni l’opera di Eastwood è andata progressivamente affermandosi come cinema d’autore, ricevendo via via consensi sempre più unanimi. Il suo talento risiede nell’aver saputo complicare l’idea di un cinema lineare e semplice. Adottando una ridefinizione e un ripensamento delle forme della retorica classica, ad esempio la contaminazione dei generi (uno degli atti fondamentali della Nuova Hollywood, che a metà degli anni sessanta riscrive la storia del cinema americano, con film come, Il laureato di Mike Nichols (1967), Easy Rider di Dennis Hopper (1969) M.A.S.H. di Robert Altman (1970). La capacità di Eastwood è quella di aver contaminato uno stile classico di racconto, con una morale che risulta aperta, discutibile, tutt’altro che classica.
Pensiamo, ad esempio, a Mystc River (2003) dove il Nostro propone uno stile classico nella messa in scena, ma non nel senso. Eastwood destrutturizza il senso della classicità, dimostrando di non credere che le risorse classiche del linguaggio possano portare alle conseguenze logiche tradizionali, ovvero il lieto fine o quantomeno la punizione dei colpevoli. Mystic River è un film cupo e doloroso, nella sua morale ambigua e contraddittoria. Eastwood impone un discorso etico privo di armonia, anche se una delle linee narrative (Jimmy/Kevin Bacon, il poliziotto) riserva un parziale happy end.
In Million Dollar Baby (2004) Eastwood rispetta i principi della messa in scena del cinema classico (leggibilità / continuità narrativa/trasparenza del linguaggio cinematografico/ tempo lineare e perfettamente comprensibile), ma non quelli della struttura del racconto (ordine/ trasgressione-minaccia/ripristino dell’ordine). La non adesione alla struttura del racconto è evidenziata dalle figure dei protagonisti della pellicola. Tutti, chi più chi meno, sono dei derelitti, destinati ad un’esistenza sullo sfondo, lontani dal successo.
Un altro caposaldo del profilo autoriale di Eastwood è Gran Torino (2008), dove da un lato la morale (per i canoni hollywoodiani) è ambigua: il male non si estingue con l’arresto dei cattivi, tuttavia una giustizia, sia pure parziale è stata raggiunta, e particolare da non sottovalutare, non attraverso la vendetta. Eastwood depone le armi, ma non l’idea di propiziare il trionfo della giustizia con un intervento diretto. Gran Torino è una sintesi della carriera attoriale di Eastwood[1]. Assistiamo ad una riduzione ai minimi termini della sua perfomance, caratterizzata da recitazione minimalista, costruita su borbottii, sibili, battute lapidarie sussurrate con voce roca. Eastwood non ha più bisogno di vestire i panni del giustiziere, gli basta evocare la figura che gli ha regalato la fama e gli ha permesso di fare grande, grandissimo cinema.
[1] All’epoca del film Eastwood dichiarò che quella sarebbe stata la sua ultima interpretazione. Viceversa tornò a recitare una prima volta in Di nuovo in gioco, di Robert Lorenz (2012) e nel suo recente Il corriere-The Mule (2019).