di Gianni Sarro
Nell’immediato dopoguerra l’Italia cinematografica è lo specchio fedele del Paese. Un cumulo di macerie, sotto le quali, tuttavia, arde ancora qualche tizzone di brace. L’importante è ritrovare un filo. Un filo che deve sprigionare una forza notevole, tale da rivoluzionare lo sguardo cinematografico, assopito da troppi anni sul filone delle commedia dei telefoni bianchi. Il cataclisma epocale della seconda guerra mondiale impone una rimodulazione della narrazione cinematografica. Impensabile riproporre gli stilemi di un cinema convenzionale dove la narrazione scorre placida, strutturata come rappresentazione di un mondo perfetto: quel mondo non esiste più, è stato spazzato via. Una nidiata di nuovi autori (Visconti, De Sica, Rossellini) raccolgono il testimone e un nuovo orizzonte del visibile irrompe nel cinema italiano e lo cambia per sempre. Nasce il neorealismo, grazie al quale vedere un film non è più un atto di pura evasione. Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che il neorealismo sia un movimento codificato, che rispetti convenzioni standard proprie del cinema classico e sostanzialmente immutabile (come non lo saranno anni dopo la nouvelle vague e la commedia all’italiana): Roma città aperta (1945), Ladri di Biciclette (1946), La terra trema (1948), tre dei capolavori neorealistici, sono per ambientazione, struttura, messa in scena molto diversi l’uno dagli altri. Pensiamo a un film come Mio figlio professore (1946) di Renato Castellani, che se da un lato ripropone alcuni figure tipiche del neorealismo come il narrare la vita onesta e dignitosamente povera di un comune bidello di scuola (Aldo Fabrizi) o del professore antifascista (Mario Soldati), dall’altro non risparmia ampi scorci sentimentali e comici. In questo panorama s’inserisce un’altra figura cardine del cinema italiano Pietro Germi. Genovese, arrivato a Roma prima della guerra, nel 1938, per seguire i corsi del centro sperimentale di cinematografia. Si diploma in regia nel 1945, tuttavia nel frattempo è stato aiuto regista, tra gli altri, di Alessandro Blasetti, Marco Elter e Amleto Palermi. La prima regia di Germi è Il testimone, film non epocale, che tuttavia mostra un’idea di cinema non convenzionale. Blasetti, che per amicizia e stima verso Germi aveva accettato di fare da super visore al film si accorge subito che l’allievo non ha bisogno di nessun tutore. Il film successivo è Gioventù perduta (1948), un poliziesco molto vivace, dove non mancano scene violente, alcune delle quali cadono sotto le forbici della censura. Entrambi i film non sembrano rientrare nello spirito culturale del neorealismo, anzi. E la critica cinematografica dedica poco più di uno sguardo al giovane regista. Il primo successo (di pubblico) si registra con In nome della legge (1948), sceneggiato anche da Fellini e Monicelli) vero e proprio western dalle cadenze fordiane[1] (memorabile la terza scena dove la mdp mostra l’arrivo in una stazione sperduta di un treno trainato da una sbuffante locomotiva nera)
ambientato in una Sicilia aspra e montuosa, riscuote un notevole successo di pubblico. La città si difende (1951) è premiato a Venezia come migliore film in concorso, anche se il regista ha sempre sostenuto che quello è il suo film peggiore. Nonostante tutto però l’amore tra Germi e la critica non sboccia[2]. Soprattutto, ma non solo, perché non è schierato a sinistra. Quello che la critica non riesce ad assimilare è l’eclettismo stilistico di Germi, che passa con disinvoltura dal western, al noir, al film in costume.
La filmografia di Germi prosegue con titoli deboli come La città si difende (1951), Il brigante di Tacca del Lupo (1952) e La presidentessa (1952). Poi a metà degli anni cinquanta arriva la svolta con la trilogia Il ferroviere (1956), L’uomo di paglia (1958), Un maledetto imbroglio (1957).
Grazie a questi film, in particolare il primo e il terzo sono tra i migliori della cinematografia italiana del dopoguerra, Germi comincia ad essere considerato autore a tutto tondo. A confermare la svolta autoriale del regista arriva Divorzio all’italiana (1961), opera con la quale Germi si misura con la commedia all’italiana, sfruttando al meglio la forza di Mastroianni e il talento in erba di Stefania Sandrelli, al suo terzo film. Analizzando il film non passa inosservata l’attenzione riservata da Germi al montaggio, che diventa via via più vorticoso. Crescono i tagli interni all’inquadratura di alcuni fotogrammi, soluzione registica che provoca una discontinuità visiva e narrativa. Divorzio all’italiana inaugura un’altra trilogia, quella delle cosiddette ‘commedie cattive’[3].
Gli altri due memorabili titoli sono Sedotta e abbandonata (1964) e Signore e signori (1966). Film che attestano definitivamente la maturità artistica raggiunta da Germi, la cui padronanza dei mezzi tecnici ed espressivi del cinema è ormai assoluta. Il livello formale del cinema germiano è impeccabile com’era già evidente in Un maledetto imbroglio, dove lo sguardo del regista è quello del commissario Ingravallo, interpretato dallo stesso Germi. Uno sguardo che si può definire morale. Lo stesso tipo di sguardo che ritroviamo in Signore e signori dove lo strumento morale di Germi non sono più gli occhiali del commissario (vere e proprie lenti/obiettivi che evocano quelli della macchina da presa di Germi) bensì lo zoom usato, insieme al sonoro per enfatizzare la sgradevolezza dei personaggi che mette in scena. La carriera di Germi proseguirà con L’immorale (1967), Serafino (1968), Le castagne sono buone (1970), Alfredo, Alfredo (1972). In tutto la sua opera comprende diciotto lungometraggi, realizzati nell’arco di trent’anni, nei quali Germi ha lasciato un segno significativo della sua idea di cinema. Un’idea che prescindeva dai generi (come tanti altri grandi, faccio tre nomi: Kubrick, Scola, Visconti), che imponeva allo sguardo spettatoriale un grado di attenzione altissimo, tuttavia gratificandolo con un spettacolo cinematografico che non era mai noioso, ne tantomeno volgare. Un autore a cui spetta di diritto un posto nel gotha del cinema italiano.
[1] Il film si apre con i titoli di testa che scorrono su un paesaggio brullo e arso, tipico dei migliori film di indiani e cowboys. La prima scena è un agguato, che se non fosse per i vestiti indossati dai personaggi, farebbe subito pensare a banditi alla Jessie James che assalgono una diligenza.
[2] Scrive Lino Micciché: «Il socialdemocratico Germi venne più insultato che giudicato. Fu definito ‘innominabile’, condannato come ‘mestierante infame’…» in Signore e signori buonanotte, Lino Micciché (a cura di), Lindau, Torino, 1997, pp. 23-33.
[3] Così le definisce Enrico Giacovelli in Pietro Germi, La Nuova Italia, Firenze 1990, pag. 76.