di Tea Ranno
“Ma il cielo è sempre più blu…”.
Lo stanno cantando adesso, hanno
cominciato alle 18.00 e cori discordanti hanno preso a inseguirsi da balcone a
balcone, da strada a strada. La confusione è massima. Non c’è un direttore
d’orchestra, non ci sono strumenti ma telefonini agitati nell’aria, voci
timide, voci più sicure, acuti di bimbi, alcuni “Bluuu…” decisamente
rauchi. Si filma, si fotografa per postare immagini sui social, per far sentire
che si ha il sole nel cuore, la speranza di farcela.
Nel gruppo WhatsApp della famiglia arriva il messaggio di quella parte di noi
che è rimasta a Milano: “Qua nel mio quartiere non cantano. Alle sei in punto
ero affacciata alla finestra e… Oh, ce ne fosse stato uno a cantare! Ho
rimediato cantando io nella mia stanza, da sola. Beati voi che siete tutti così
allegri”.
Non tutti sono così allegri. I morti non si contano. I vivi si danno coraggio.
Beati
voi…
Una parte qui, una parte lì. Il cuore in bilico.
Qui si canta. A Milano (nel quartiere in cui abita lei) si tace. Ma lei canta
lo stesso, da sola, nella sua stanza. Sarebbe potuta rientrare alla chiusura
dell’università, invece: “Vi potrei contagiare, mamma. Resto qui”.
Resta lì. C’è Katia, certo, che abita al piano di sopra e ogni tanto le porta
(da lontano, munita di guanti e mascherina) il ragù o le cotolette, che la
chiama due volte al giorno anche solo per dirle: «Lo so che ti rompo le
scatole, però ti chiamo lo stesso. Come stai?». E poi basta. Tutte partite le
ragazze che abitano con lei, la casa enorme, le uscite rapide per la spesa. E
la vita che cammina zoppa. Noi qui, lei lì. La vita che cammina amara: caffè
senza zucchero qui, torta di carote lì («Devo pur fare qualcosa, mamma»).
Poi la telefonata dalla Sicilia: «Per le strade non c’è un cane, zia, ma hanno
cantato dai balconi. Mi è piaciuto, mi hanno dato il senso di una comunità».
La vita cammina zoppa: un piede in Lombardia, uno in Sicilia. E intanto vivo a
Roma. Come si può? Come si fa a restare in equilibrio? Con le canzoni? Con la
scrittura?
Stamattina mi ha scritto Emma: “I bambini sono disorientati, hanno paura.
Perché non inventi una favola in cui un mostro come il Corona virus
diventerebbe… Chissà… Non so… Qualche altra cosa”. Le ho risposto che anche io
ho paura, che la penna non mi ubbidisce. Lei mi ha mandato un cuore. Uno di
quegli enormi cuori rossi pulsanti di WhatsApp. E la mano è partita. Ed è
venuta questa piccola storia.
È per Emma, innanzitutto, poi per Sara, per Laura, per Katia, per Chiara, per
tutti quelli che cantano dalle finestre e dai balconi, per quelli che a Milano
tacciono, per quelli che a Roma si sentono zoppi.