Bergman-Monicelli

di Gianni Sarro

Nel 1966 Mario Monicelli gira L’armata Brancaleone, ambientato in un Medioevo collocabile intorno all’anno 1000. Protagonista è Vittorio Gassman, che nel personaggio del Cavaliere senza macchia e senza paura, ma anche maldestro e sfortunato, sintetizza le sue due anime recitative: quella classica – teatrale e quella comico – cinematografica, quest’ultima cucitagli addosso proprio da Monicelli, con la fortunata maschera di Peppe er Pantera, il pugile balbuziente de I soliti ignoti. L’armata Brancaleone raggiunge un successo clamoroso, figlio di un cast ricco, che accanto a Gassman schiera star quali Gianmaria Volonté e Catherine Spaak, e caratteristi come Carlo Pisacane (Capannelle). Accanto al cast, altra ragione del successo fu il particolare linguaggio parlato dai personaggi; un misto di latino maccheronico e dialetto laziale che soprattutto in bocca a Gassman tocca vertici di poesia volgare. Quattro anni dopo, nel 1970, Monicelli ci riprova e gira Brancaleone alle crociate. Accanto a Gassman, confermatissimo, e ci mancherebbe, recitano Stefania Sandrelli, Adolfo Celi, Gigi Proietti (che nei titoli appare ancora come Luigi) e Paolo Villaggio.

Il sequel pur mantenendo intatta la struttura di film comico, accentua una linea poetica già presente nella pellicola del 1966: quella del rapporto con la morte. Ne L’armata Brancaleone faceva già la sua apparizione in almeno due sequenze fondamentali. La prima quando Brancaleone e i suoi seguaci arrivano in un paese all’apparenza disabitato. Gassman in una casa incontra una donna dalle procaci grazie (Maria Grazia Buccella) che lo invita ad un amplesso, ma sul più bello la donna si fa sfuggire che nel paese è appena passato “Lo gran morbo” ossia la peste. Il secondo è la dipartita di Abacuc, il personaggio interpretato da Capannelle. La scena è molto tenera, la lenta agonia dell’anziano viene accompagnata con dolcezza da Brancaleone, che gli sussurra parole nel tentativo di alleviargli il momento del trapasso. In Brancaleone alle crociate la morte assurge al rango di personaggio (il Medioevo è un’epoca, dove il disfacimento dell’Impero Romano, le invasioni barbariche, le guerre, le epidemie finiscono con il radicare profondamente nell’immaginario collettivo della società occidentale, il senso della caducità della vita. Come dimostrano molte testimonianze iconografiche dell’epoca, le stesse che influenzano Bergman) diventa la Morte con la M maiuscola, come ne Il settimo sigillo. La citazione fatta da Monicelli in Brancaleone alle crociate de Il settimo sigillo è gargantuesca e caciarona; a fare da mattatore è il volto trasfigurato ai limiti del clownesco di Gassman (ad onor del vero il regista dichiarò alcuni anni fa che lui non citava affatto Bergman, ma un intero filone cinematografico che affonda le sue radici nel muto. Affermazione di cui prendere atto). La Morte di Monicelli (ma anche di Age e Scalpelli, i due cosceneggiatori delle pellicole) si presenta più sfrontata e ciarliera di quella di Bergman. È vestita di nero come la sua “collega” del Il Settimo sigillo, ma il suo volto è celato da una maschera, con le sembianze di un teschio, sotto la quale si nasconde il

La Morte in Brancaleone alle Crociate, di Mario Monicelli, 1966

volto di Gigi Proietti ( che nel film interpreta anche altri due ruoli) Un’altra peculiarità del personaggio monicelliano è il suo brandire una grande falce; la Morte di Bergman è invece ieratica, non mostra simboli iconici. Potremmo definirla pura essenza, per il suo essere riconosciuta dal volto bianco (che stacca nettamente dal nero del vestito indossato) e da uno sguardo penetrante. La Morte che affronta Brancaleone è, invece, anche (anzi soprattutto) apparenza: è ciarliera, strafottente, provocatoria. Veniamo ora alla prima sequenza nella quale il cavaliere gassmaniano e la Morte s’incontrano. La scena è introdotta dallo scontro tra il gruppo di pellegrini, del quale Gassman si è proclamato “defensor”, guidato da un predicatore (interpretato da Shel Shapiro), che riconosce la propria guida spirituale in Gregorio VII e un gruppo armato, guidato da un vescovo che invece riconosce come papa Clemente. Al riguardo va fatta una precisazione. In questo caso Monicelli e gli sceneggiatori stravolgono la storia. Infatti, a spiegazione del contendere è evocata la differenza dottrinale tra  gli scismastici (che vedevano la figura della Trinità come una e trina) e i Monofisiti (che viceversa vedevano come unica la figura Divina), questione che era stata definita nel consiglio di Nicea del 353 d.c., ossia circa sette secoli prima. Gregorio VII fu invece protagonista di un altro grande contrasto, quello con Enrico VII, l’Imperatore famoso per l’episodio di Canossa, di natura squisitamente politica. Comunque sia i due gruppi si scontrano e a prevalere sono i seguaci di Clemente. L’unico superstite, apparentemente, è Brancaleone, che durante lo scontro è rimasto sepolto sotto una barca. Quando finalmente il cavaliere si libera, ai suoi occhi si presenta uno spettacolo orripilante. I corpi dei suoi compagni sono stati decapitati e infilati nel terreno con le gambe in alto. Un cartello scritto con il sangue spiega che hanno subito il giusto contrappasso per essere degli scismatici. Repentino scoppia in Brancaleone il senso di colpa per non aver difeso i suoi protetti, da qui scaturisce l’invocazione della morte, come unico viatico dell’onta che lo macchia. Questo è l’introduzione che ci porta alla scena del primo incontro tra Brancaleone e la Morte. Il confronto tra i due è, come ne Il settimo sigillo soprattutto un duello dialettico, caratterizzato dalla verve stentorea di due mattatori della parola quali sono Gassman e Proietti. La loro sfida a parole è carica di continue provocazioni, di invocazioni, come quella che Brancaleone fa nel prologo del primo incontro:

“…Io t’invoco, tu non mi spauri” afferma per poi continuare: “…che fai Morte tentenni? Presto accorrimi, io te lo impongo”.

La scena qui è tutta di Gassman, che grazie al suo atletismo è padrone unico dell’inquadratura, si muove con gestualità tipicamente teatrale, e la macchina da presa si limita a seguirne le evoluzioni, dando vita ad un piano sequenza. Finita l’invocazione c’è uno stacco e fuori campo una voce esclama:

Son qua”

 è la Morte che si palesa. Già in questa prima scena emergono le differenze, innanzi tutto stilistiche tra Bergman e Monicelli. Rarefatte, minimaliste, le schermaglie tra Block e la Morte; cariche di pathos e donchisciottesche quelle di Brancaleone. Il cavaliere di Monicelli, infatti, una volta capito chi ha di fronte, si schermisce e alla Morte che gli fa presente che egli stesso l’ha invocata, replica:

“…Parole che sfuggono, nell’impeto dei sentimenti”

subito dopo però il cavaliere ritrova il suo onore e affronta con fierezza la Morte. E qui emerge un’altra fondamentale differenza. Brancaleone non ha domande sulla Fede o sulla presenza ed essenza di Dio, ma piuttosto una richiesta, diciamo pure una pretesa, quella di trovare una morte degna del suo alto lignaggio di cavaliere, ossia in uno scontro d’arme. È interessante notare come la Morte parli con marcato accento toscano, la spiegazione all’aver adottato questo escamotage si deve alla necessità di differenziare la voce di Proietti, che come abbiamo già segnalato svolge anche un altro ruolo nella vicenda. I due protagonisti sono ripresi in piena luce, tutti i loro incontri si svolgono in pieno giorno. Questa scelta sottolinea ancora di più che per Monicelli non c’è nessuna verità ulteriore da svelare, nessuno arcano da comprendere, egli assume la Morte come un dato di fatto, come una signora dagli abiti un po’ discinti, che a differenza di quella bergmaniana ama duellare ed essere protagonista (come poi vedremo nella scena finale) riconoscendosi un ruolo interventista e di cambiamento del destino umano, del tutto alieno alla Morte de Il Settimo sigillo.

Il settimo sigillo, di Ingmar Bergman, 1958

Nel duello tra Brancaleone e la Morte appare una figura retorica che tanta importanza ha ne Il Settimo sigillo, quello della strega, qui interpretata da Stefania Sandrelli. Monicelli introduce Tiburzia, la strega, mostrandola mentre viene processata. L’accusa non differisce dall’imputazione di quella di Bergman “Aver giaciuto con il diavolo” a cui si somma la pratica di magia nera. Il processo si tiene nella piazza di un villaggio sub montano, una lunga processione di religiosi incappucciati trascina la strega al centro della piazza dove si erge un palo a cui la legano. L’accusa viene sostenuta da un religioso abbigliato in ricchi e sgargianti paramenti. Come testimone delle diaboliche relazioni intrattenute dalla strega viene convocato un nano (elemento al contempo buffonesco ma anche sinistro, infatti quando irrompe in campo impugna una falce, proprio come la Morte, questo perché egli con le sue parole è il vettore usato dai religiosi per dare la morte alla strega), che sostiene di essere vittima di un incantesimo inflittogli da Tiburzia, prima del quale egli era alto, biondo e con gli occhi azzurri. La scena si dilunga con altre testimonianze, finché giunge inappellabile il verdetto, Tiburzia viene condannata al rogo. A questo punto irrompe in campo Brancaleone, che ha assistito al processo dal crinale di una collina che sovrasta il villaggio (questa scena viene ripresa in 007 vivi e lasci morire, dove una donna sta per essere uccisa durante un rito voodoo ad Haiti, e viene salvata da Roger Moore – James Bond). Il cavaliere sbaraglia le poche forze avversarie, qui non ci sono gli sbirri – soldati de Il settimo sigillo, si precipita sul rogo e salva Tiburzia. Perché lo fa? Forse perché egli comunque prende le parti del più debole (a prescindere, “Foss’anche una strega”) ma è possibile che non abbia ben capito, assistendo da lontano alla scena chi sia quella donna e poi Brancaleone è un cavaliere italiano sempre pronto a lasciarsi affascinare dalle grazie femminili. Un ruolo importante in questa sequenza girata da Monicelli lo svolgono i colori. A prevalere sono quelli chiari; beige, infatti, sono i sai con cappuccio indossati dai sacerdoti che trascinano la Sandrelli al palo, la quale a sua volta è vestita di bianco. Ne Il settimo sigillo invece prevale il nero. Evidente il significato opposto delle due scene. Bergman vuole dare alla vicenda della strega una connotazione esclusivamente drammatica, mentre Monicelli vuole mantenere il piede anche nella staffa della commedia grottesca. Non solo la strega di Bergman troverà presto la morte e la sua funzione narrativa si esaurisce quando dà l’ennesima non risposta alle domande di Block; Tiburzia è invece un elemento narrativo che accompagna da questa sequenza in poi tutta la vicenda di Brancaleone. A caratterizzare la figura di Tiburzia è, innanzi tutto, l’ammissione di avere poteri e conoscenze particolari: parla con i morti, con gli animali e guarisce con la lingua le ferite più profonde. Ulteriore elemento di aggiornamento ne confronti della strega de Il settimo sigillo (alla quale è accomunata solo dai capelli tagliati molto corti, sfregio a cui venivano sottoposte le accusate di stregoneria) è il sentimento d’amore che Tiburzia prova per Brancaleone. Un sentimento da “strega” però, infatti quando vede Brancaleone cedere alle grazie di un’altra donna, per vendicarsi interverrà pesantemente sull’esito del duello che Brancaleone sta sostenendo con i Saraceni, a Gerusalemme. Mentre sta per uccidere l’ultimo avversario, Brancaleone è colpito da un frutto gigante che cade da un albero. Non è un caso del destino, ma la volontà della strega, che con la forza del pensiero ha fatto sì che la grossa noce di cocco finisse sulla testa del baldanzoso cavaliere. Questa scena, conclusasi con la sconfitta di Brancaleone, ci porta all’epilogo della pellicola e al secondo ed ultimo incontro tra Brancaleone e la Morte. Siamo nel deserto, fuori le mura di Gerusalemme, tra le dune Brancaleone rincorre Tiburzia, responsabile della sua sconfitta e di quella dei cristiani. Improvvisamente risuona la voce stentorea della Morte e la sua figura minacciosa si riflette sullo scintillante scudo di Brancaleone, del quale è venuto a prendersi l’anima. Ma Brancaleone, pur stanco, non vuole arrendersi senza combattere e  sfida la Morte; un duello come quello voluto da Block, ma che si disputa non su una scacchiera, bensì con armi: la spada dell’uomo, contro la falce della Morte. Il cavaliere gassmaniano è conscio di non avere speranze di vittoria

“E così io avrò te, ma gloriosamente”

Dice alla sua avversaria accingendosi a battagliare, il duello inizia e Brancaleone arriva a trafiggere la Morte, ma la sua Turlindana attraversa un ectoplasma, un non – essere, che non può perire. Viceversa la Morte con la sua falce travolge il cavaliere che persa anche la spada, si arrende. E aspetta in ginocchio sulla sabbia che il suo destino si compia. Ma quando la falce lo sta per mietere, tra lui e la Morte si inserisce Tiburzia, che s’immola (per amore) al posto del cavaliere. La Morte, soddisfatta, se ne va lasciando vivo Brancaleone. In questa scena finale Vittorio Gassman si riappropria in toto della sua maschera più conosciuta, quella tragica. Un’epilogo quindi rovesciato in confronto a Il settimo sigillo.

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